I colpi inferti a Cosa Nostra |e quel prezzo da non dimenticare - Live Sicilia

I colpi inferti a Cosa Nostra |e quel prezzo da non dimenticare

L'antimafia sembra divisa sull'esito della guerra ai boss. Ma tante battaglie sono state vinte e pagando un prezzo salato.

Il dibattito
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C’è una contrapposizione dentro il movimento dell’antimafia che sta venendo fuori con sempre maggiore nitidezza. E non parliamo di quella tra l’antimafia “finta” e quella “vera”, tra l’antimafia delle parate e dei pennacchi e quella “fatta col cuore”, visto che all’interno del movimento stesso ciascuno con buone dosi di indulgenza può svegliarsi una mattina e autocollocarsi dal lato giusto della suddetta partizione.

No, parliamo di un’altra linea di discrimine, che si consuma in un certo senso sul piano della valutazione storica della lotta alla mafia. E che vede in qualche modo – tra detto e non detto – le vicende processuali della trattativa come pomo della discordia tra le due correnti. Una dicotomia che è emersa in controluce dalle celebrazioni del 23 maggio. Da una parte quanti rivendicano i successi dello Stato nella lotta a Cosa Nostra, magari mostrando cautela se non scetticismo verso le teorie del complotto che stanno alla base dei vari processi sulla trattativa. Dall’altra quanti invece a quelle stesse teorie non rinunciano e con esse all’idea sottostante per cui il patto scellerato tra Stato e boss abbia lasciato una scia che si è protratta oltre le bombe del biennio ’92-93. Basta leggere le recenti dichiarazioni di Maria Falcone a Livesicilia da una parte e le cronache e i commenti sull’assoluzione del generale Mori di alcune testate giornalistiche, dall’altra, per scorgere nitidamente le distanze tra le due correnti.

A dividere è ancora una volta la valutazione sulla teoria che sta al centro del famoso saggio di Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo. Che muove da una domanda: se trattativa ci fu per salvare la mafia, la mafia fu effettivamente salvata?

“Il maxiprocesso ha dimostrato come lo Stato sappia reagire. Come gli anticorpi della mafia siano presenti nelle istituzioni e agiscano grazie all’opera di magistrati e di uomini delle forze dell’ordine”, ha scritto il Capo dello Stato nel suo messaggio per il 23 maggio. Rivendicando dunque quella lotta alla mafia, che ha indiscutibilmente inflitto colpi pesantissimi a Cosa Nostra, anche negli anni successivi alle stragi. La mafia e la sua sanguinaria violenza non sono vinte del tutto, le cronache da Ballarò ai Nebrodi ce lo ricordano, ma mettere in discussione l’azione dello Stato contro i boss e i successi ottenuti in questa lunga guerra nell’ultimo quarto di secolo sarebbe quanto meno ingrato. Non fosse altro che per il prezzo altissimo pagato sull’altare di quella guerra.

Un prezzo in termini di vite umane, anzi tutto, come ci ha ricordato ancora una volta la celebrazione della memoria del 23 maggio. Un rosario di nomi, volti e vite spezzate sulle quali ogni parola rischia di suonare retorica.

Un prezzo in termini di compromessi dolorosi con l’etica e col comune sentire. Compromessi purtroppo necessari per scardinare i muri di omertà. Come le leggi sul pentitismo, con tutti i bocconi amari che queste impongono di mandare giù. A partire dal capodanno in famiglia di Giovanni Brusca a pochi giorni dal ventesimo anniversario dello strangolamento e scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo. Non è prezzo da poco, ma senza quelle leggi, è difficile anche solo immaginare i progressi fatti, a partire dal maxiprocesso, per assicurare alla giustizia i boss.

Un prezzo in termini di eccezioni ai principi cardine della civiltà giuridica (e non solo giuridica) introdotte da altre leggi. Come quelle che invertono l’onere della prova quando si parla di patrimoni in odor di mafia. Una forzatura che è stata però funzionale per aggredire i boss lì dove davvero si fa loro male, sui piccioli, come intuirono Boris Giuliano e Pio La Torre. O come quelle del 41 bis, che fuori dall’Italia è stato accostato alla tortura, e che ha poco a che fare con i principi di umanità che dovrebbero stare alla base del sistema carcerario. Ma senza il quale i mammasantissima avrebbero continuato a dettar legge dalle loro celle, come accadeva in passato.

Un prezzo in termini di impegno di uomini e mezzi. A partire dall’esercito delle scorte, elargite forse con criteri discutibili. Ma la vicenda di Giuseppe Antoci ci ricorda quanto prezioso sia il lavoro degli agenti di scorta, dopo le sconfortanti storie di capatine in profumeria che ci è toccato leggere di recente.

Un prezzo anche in termini politici, per aver dovuto assistere al consolidamento del potere di un fronte antimafioso, che negli anni si è trasformato in un torpedone su cui si sono accomodati, accanto ai tanti sinceri e volenterosi, anche smaliziati avventurieri. Un fronte che agli uni e agli altri negli anni ha fatto da scudo, stroncando sul nascere ogni possibilità di critica o di polemica, tacciata di intelligenza con il nemico. Uno stratagemma che oggi attacca sempre meno.

Prezzi altissimi che hanno permesso di vincere molte battaglie. Di una guerra che non è ancora finita. Ma che non può essere cancellata. Come non si può mandare in soffitta come fosse un unico, indistinto calderone la complessa storia dell’intero movimento antimafia.

 


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