I giudici e la "paura" della Sicilia - Live Sicilia

I giudici e la “paura” della Sicilia

Mancano in Sicilia come l’acqua in estate e gli invasi a gennaio. Non è un  cruciverba, anche perché come lamenta la magistratura non ci sarebbe la carta e la penna per scrivere. Sono i magistrati quelli che mancano, infatti l’ultimo  concorso bandito dal Csm -nonostante gli incentivi economici e di carriera- per ricoprire le sedi disagiate si è rivelato un conclave andato a male.
La mancanza di trasferimenti nell'Isola
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Mancano in Sicilia come l’acqua in estate e gli invasi a gennaio. Non è un  cruciverba, anche perché come lamenta la magistratura non ci sarebbe la carta e la penna per scrivere. Sono i magistrati quelli che mancano, infatti l’ultimo  concorso bandito dal Csm -nonostante gli incentivi economici e di carriera- per ricoprire le sedi disagiate si è rivelato un conclave andato a male. Su 33  posti disponibili solo 7 sono stati assegnati, per i rimanenti si ricorrerà a trasferimenti coatti, che sono quei trasferimenti non voluti ma subiti e pieni  di rancore e accidia.

Molte delle procure siciliane non hanno ricevuto una sola domanda di trasferimento da parte dei giudici (sorte condivisa al Nord da Ivrea, Mondovì e Busto Arsizio) tra queste: Enna, Ragusa, Messina, Agrigento.
Tra coloro che hanno deciso di trasferirsi  spontaneamente in Sicilia (ed è un ritorno) c’è  Frank Di Maio giudice di Milano, finora solista di una banda senza  strumenti. E c’è davvero da ringraziarlo questo magistrato dal nome americano, che dallo scandalo foto- ricatti passa agli appalti di Termini Imerese.
Però è innegabile domandarsi il perché della ritrosia, con cui i giudici hanno
opposto il veto al trasferimento. Se da una parte si può comprendere la neghittosità con la paura di un ambiente difficile, dove il lavoro è più duro e
la criminalità più radicata, dall’altra rammarica perché sembra la malattia del
posto vicino casa e dell’ ostrica attaccata allo scoglio.
E sarebbe facile opporre  a questi magistrati gli insegnanti meridionali che
salgono lo scalcagnato stivale nella speranza della supplenza, del punteggio
acquisito e del ritorno nella vecchiaia; per i maestri del sud la cattedra  ricevuta come grazia in quel Nord che li considera acari del materasso, è pari ai cento giorni a Palermo o Caltanissetta.
Ma in realtà, il giudice che decide di rifiutare la sede disagiata, rischia di  far il proprio lavoro per mestiere e non per passione. Per un giudice la Sicilia ed il meridione stanno alla cronaca del Corriere della Sera o di Repubblica per chi fa i giornalini a scuola, all’ Einaudi per lo scrittore, alle officine della Maserati per il carrozziere; è infatti la difficoltà, la scommessa che fa uscire fuori il talento, l’invenzione.

Le ristrettezze imparano il valore della parsimonia, solo un ambiente piccolo trasforma i colleghi in amici, la squadra in scuola. Certo la Sicilia come la Calabria e la Campania non danno fama ma mettono appetito. Il giudice cassa, e sazia come la cassata dopo un pranzo, chiama i commensali al tavolo e offre cibo proprio a coloro che non hanno denti o non mangiano per troppe carie. Quindi il giudice che si rifiuta d’andare in Sicilia è uno monco, senza apprendistato: quel non plus ultra che fa rubare l’arte e metterla da parte.
L’ arte di passare il giallo (e di risolverlo) dove il mare è più nero perché  riflesso della lava, l’arte del saggio che aspetta il giorno del giudizio.

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