I versi di Nicola Romano sul confine di chi tenta la poesia - Live Sicilia

I versi di Nicola Romano sul confine di chi tenta la poesia

C’è sempre qualcosa che si può indovinare negli occhi di coloro che si sono fatti invitare dall’infinita povertà di un verso.
INCHIOSTRO DI SICILIA
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Non è facile chiedere cosa sia un libro di poesia. Eppure, dopo il lieto acclimatamento che richiede un incontro, lo chiedo a Nicola Romano quando mi porge la sua opera più recente.

Una raccolta di poesie d’amore, un punto ideale dopo tanti anni di acquisizioni formali – mi dice. Ed io lo infilo nella larga tasca del cappotto per poi toccarlo più volte e verificare che abbia già un suo luogo.

Formali, anche formali – continua – perché, se sbilanciamento deve esserci, è meglio che vada verso la struttura piuttosto che verso la carne della parola.

Mi sembra di sedere in un punto dell’universo, il più umile e rarefatto possibile. In quel confine che conosce solo chi tenta la poesia. C’è sempre qualcosa che si può indovinare negli occhi di coloro che si sono fatti invitare dall’infinita povertà di un verso. Un lampo duttile, le tracce di un gatto che lecca il buio e scompare perché i poeti sembrano invisibili anche ai pleniluni. E appare inutile assegnarsi un nome, tenere a mente un cifrario o cercarsi in un indirizzo quando alle tempie batte uno scompiglio.

La poesia di Nicola Romano ripara l’irreparabile per vocazione: la felicità adulta e irrimediabile dove nessun senso può, definitivamente, trovare casa.

Ampio il tema dell’assenza in cui si ricostruiscono future distanze e nuove comprensioni. L’amore conquistato per frammenti negli occhi ingabbiati con un ponteggio, puntato contro il cuore. Parole non dette, forse, come pietre in cui è cava senza più pietrisco, ma il setaccio di tutto ciò che ha perso.

Una profondità da dove sveglia i morti con la loro stanchezza ripiegata sulle sedie d’inverno, in una memoria talmente lontana da non ricucire un sorriso negli ampi gesti rivolti alla metropoli.

Si torna alla poesia per tentare di riformare i versi: tornare a dirsi cosa sia questa poesia barbara a cui fa compagnia soltanto un cane. Considerarla viva con i suoi occhi umidi, sentirla come chiassosa corda di campana perché nessuno le verrà accanto a spartire il calore di un idioma o a barattare sillabe in amore.

Sono movenze i suoi versi che dibattono fra un niente e una menzogna, coscienza ultima e ben disegnata di ogni vanità superflua e immaginata. Versi di maturità spoglia e calibrata in cui si torna liberi come in un gioco fin troppo conosciuto.

Così fino alla Trilogia di un tormento, dedicata alle donne, come Mariannina Coffa, costretta a scrivere di nascosto affinché di lei non si dicesse di non essere una donna di casa. Appaiono le lacrime d’argilla di Camille Claudel in quella libertà mai rassegnata, l’oltraggio all’anima e alle cosce di Artemisia Gentileschi che matura una cromatica vendetta dipingendo Giuditta e Oloferne. Infine Ipazia a cui Nicola Romano vorrebbe ridare gli occhi e la bocca e ricomporre vergine il suo corpo. Delicato partigiano del femminile ne raccoglie ferite e mutilazioni ed energia creativa e temeraria, come raramente fa un uomo dalla loro stessa parte del cielo.

E ci diciamo, ancora, quel che basta. Che con gli occhi ci siamo detti tutto. Al resto ci pensi pure l’inspiegabile varco che ci racconta e racconta, adesso, dei suoi versi.

Tra un niente e una menzogna, Passigli Poesia, collana fondata da Mario Luzi, prefazione di Elio Pecora, ottobre 2020, Euro 14,00.

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