Il cammino che non conosce padri - Live Sicilia

Il cammino che non conosce padri

C'erano una volta i padri. Oggi ci sono soprattutto i papà. E i figli smarriscono il cammino. Com'era vostro padre?

C’è un padre che ogni mattina si carica sulle spalle il figlio disabile e lo conduce per boschi e foreste, lungo una strada accidentata, fino a scuola. E’ una fatica di parecchi chilometri. L’uomo torna a casa per lavorare. A sera riparte e va a riprendere il figlio. La storia l’ha raccontata il ‘Corriere della sera’. La foto a corredo mostra un piccolissimo orientale tra alberi giganti, col ragazzino in spalla. La faccia assume un’espressione concentrata. Si legge il dolore fisico. La consapevolezza di un compito più grande del dolore. Non c’è ombra di sorriso. Ma c’è come una luce interiore. O forse la scorgiamo noi per senso di colpa, per riduzione del danno, per sollievo alla pena. I padri di una volta indicavano la strada ai figli. Questo padre accompagna il suo a destinazione, perché da solo non potrebbe farcela. Voi che padri avete avuto? Vi tenevano per mano? Vi leggevano le favole della buona notte? Erano apprensivi o sicuri? Effondevano pace o rabbia?

Quel che ricordo del mio è circoscritto in alcune immagini specifiche, sovrastate da una specie di sinfonia. In certe domeniche d’autunno temperato si sviluppava il rito della passeggiata a Mondello. Per autunno temperato noi palermitani intendiamo una giornata soleggiata con l’aria fresca. In giorni simili un palermitano indossa il giubbotto. E va a guardare il mare che è l’interlocutore di un dialogo difficile. D’estate lo invadiamo con la ferocia di conquistatori che troppo a lungo hanno atteso il cedimento del bastione principale di una fortezza. Nel resto dell’anno il rapporto si consuma in uno scambio di occhiate circospette. Guardiamo il mare. Il mare ci guarda. Come se nel sentimento di reciproca appartenenza covasse una postilla di sana lontananza e la trincea degli sguardi fosse il posto migliore per coltivare un destino comune.

Andavamo a guardare il mare. Iniziavamo il viaggio dal baretto, fino ad arrivare in piazza, con passi lenti. A metà, ci fermavamo sul moletto bianco. Scrutavamo l’orizzonte e tiravamo pietre in acqua, contando i rimbalzi. Vinceva sempre lui, per numero di salti del sasso. Quando cominciai vincere io, a lanciare la mia pietra più distante, scoprii la vecchiaia prossima dell’uomo che amavo. Non avremmo avuto il tempo di esserne soverchiati. La carovana riprendeva gli spostamenti dopo un congruo numero di pietre. Salutavamo il moletto bianco. Ci spingevamo in piazza, nel chiasso di Mondello. Il calzone fritto a conclusione era il suggello di un patto. Ma il premio era altro: la fortuna di stare insieme. Io, il bambino che seguiva. Lui, il padre che indicava il cammino.

C’è stato molto altro di mio padre quando era anche papà e riusciva ad essere l’uno e l’altro. La differenza è solenne. L’affetto intimo delle cose complici è appannaggio dei papà. La morale della favola, con l’esempio, è del padre. La partita, gli scherzi, i consigli amorosi, i giochi, le letture: dei papà. Gli ammonimenti, le opere, i mattoni per costruire un senso, altri consigli permanenti, riferiti con i gesti più che con le parole: dei padri. La divisione si rintraccia perfino nell’abbigliamento. Del papà sono le vestaglie rosse, le pantofole, la pipa. Del padre è il maglione a girocollo, del padre è la giacca. In mezzo c’è la sciarpa.
L’orientale che conduce suo figlio nei boschi è padre e papà. Padre nella forza con cui sorregge. Papà nella tenerezza con cui stringe. Ma questi – casi rari a parte – sono i tempi di troppi papà e di pochissimi padri. E i figli si smarriscono. Non trovano più il sentiero di briciole di pane, minacciato dai corvi. Non trovano la strada che riporta a casa.


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