Martedì 24 settembre scadrà il termine che la Corte Costituzionale ha proposto al Parlamento per discutere ed eventualmente modificare l’art. 580 del Codice Penale in materia di agevolazione al suicidio. In assenza (ormai probabile, anzi probabilissima) di deliberazioni, la Corte deciderà. È ripresa quindi la discussione sugli aspetti giuridici della questione, sul fine-vita, sull’autodeterminazione del singolo, sugli interventi terapeutici e su molto altro, sulla scia di quanto coinvolse l’attenzione dell’opinione pubblica ai tempi del caso Welby, del caso Englaro e poi della discussione della legge sul testamento biologico.
In questo contesto il cardinal Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana (dunque il collegio dei vescovi cattolici), è intervenuto, “a nome della Chiesa italiana”, con una posizione molto netta in cui conferma il rifiuto dell’accanimento terapeutico; critica il concetto di “libertà del soggetto” (‘non è una scelta di autentica libertà’) che ispira la posizione pro-eutanasica; dice che tra “i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2 della Costituzione) non c’è quello di disporre della propria vita e che ‘vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente’, mentre ‘è un atto di egoismo sottrarsi a quanto ognuno può ancora dare’ . Infine afferma che ‘la stessa malattia, se vissuta all’interno di relazioni positive, può assumere contorni molto diversi, e fare percepire a chi soffre che egli non solo riceve, ma anche dona’.
Bassetti si intrattiene poi sul vero timore dei vescovi, quello del “piano inclinato” per cui, con una diversa normativa, ‘diverrebbe sempre più normale il togliersi la vita e ciò potrebbe avvenire di fatto per qualunque ragione e, per di più, con l’avvallo e il supporto delle strutture sanitarie dello Stato’. Nella sua linea vivacemente polemica, Bassetti mette in discussione una volta ancora il fatto che il malato possa rifiutare l’idratazione, la respirazione e l’alimentazione forzata: di conseguenza il cardinale chiede anche una modifica della legge perché vi sia previsto un esplicito riconoscimento dell’obiezione di coscienza all’accettazione della stessa da parte di medici e infermieri.
Mi pare opportuno, a beneficio dell’opinione pubblica, precisare alcuni punti.
Primo: la posizione, sbrigativa ed autoritaria del cardinale, non è l’unica in campo cattolico. Sono reperibili saggi e libri di teologi autorevoli, che si sono auto-considerati cattolici, come Giovanni Franzoni e Hans Küng, di parere diverso: proprio se la vita è un dono di Dio, quando essa deperisce in maniera irreversibile e si trasforma in motivo di sofferenza e di tentazione, è logico presupporre il diritto di restituirla al Donatore per salvaguardarne l’intenzione originariamente benevola. Anche il Movimento cattolico internazionale “Noi siamo chiesa”, intervenendo in questi giorni sull’argomento, ha ribadito che “non si può imporre una legge valida erga omnes quando diverse e non poche sono le cosmovisioni presenti nella società”; e che, “per quanto ci riguarda come credenti, il fine vita è un compimento, ma anche un nuovo inizio che la misericordia di Dio ci dona. Di ciò troppo poco se ne parla, troppo poco ci si pensa”.
Particolarmente toccante la testimonianza di un cattolico, allievo di don Milani, Michele Gesualdi, che due anni fa, di fronte alla prossima morte per SLA, scrisse: “La vita è sicuramente il più prezioso dono che Dio ci ha fatto e deve essere sempre ben vissuta e mai sprecata. Però accettare il martirio del corpo della persona malata, quando non c’è nessuna speranza né di guarigione, né di miglioramento, può essere percepita come una sfida a Dio. Lui ti chiama con segnali chiarissimi e rispondiamo sfidandolo, come se si fosse più bravi di lui, martoriando il corpo della creatura che sta chiamando, pur sapendo che è un martirio senza sbocchi”.
Si può obiettare che, al di là di posizioni particolari, la voce di Bassetti è l’unica “ufficiale” della Chiesa cattolica italiana: ed è vero. Ciò significa che è l’unica compatibile con il messaggio evangelico e la tradizione bimillenaria ecclesiale ? E’ opportuno ricordare che la posizione cattolica non è l’unica posizione cristiana: vi sono molte chiese (che si rifanno soprattutto alla Riforma protestante e alla tradizione anglicana) che evitano di dare indicazioni precise, stringenti, preferendo fermarsi sulla soglia del sacrario della coscienza del malato, nella convinzione che ogni situazione sia irripetibilmente unica.
Nello scorso febbraio è stato firmato a Roma, anche da rappresentanti di istituzioni cattoliche, un “Manifesto interreligioso dei percorsi di fine vita” che dice tutto quello che è doveroso per rispettare ed aiutare la sofferenza del paziente in ogni sua dimensione, materiale e spirituale. Qualche tempo prima (aprile 2017) la Commissione bioetica delle Chiese battiste, metodiste e valdesi ha pubblicato un documento dove, fra l’altro, si legge: “l’assunzione che la richiesta di essere aiutati a morire possa essere sempre interpretata come un rifiuto del dono di Dio, e di conseguenza del legame con Dio stesso, ci sembra fondata su una ricostruzione unilaterale, e difficilmente giustificabile, della logica del dono. Quest’ultima, infatti, non implica necessariamente che ciò che viene donato sia indisponibile a colui che riceve; implica piuttosto l’idea di un uso grato e responsabile del bene ricevuto, che tenga conto della relazione che in tal modo si è instaurata. In questo senso, riteniamo che la richiesta di persone ammalate, che in situazioni di sofferenza estrema esprimano il desiderio di non trascorrere gli ultimi giorni nell’incoscienza indotta dai trattamenti antalgici necessari a lenire un dolore non altrimenti sopportabile, non debba necessariamente essere considerata come l’espressione del desiderio di assolutizzare la propria libertà finita di fronte alla morte, né un rinnegamento del rapporto con Dio. Può anche essere la conseguenza del desiderio di disporre in modo responsabile del dono della vita ricevuta e della fiducia in una grazia che accoglie l’oppresso e lo sfinito, dell’affidamento a un Dio che non chiede un tributo di sofferenza, che non impone condizioni e obblighi e che non sottomette l’uomo a principi, ma invece lo libera gratuitamente, mettendo nelle sue mani anche la possibilità di rinunciare a continuare l’esistenza terrena. La scelta di morire, che in certi casi può effettivamente essere interpretata come rifiuto del dono, in altri casi può invece essere compresa come l’espressione della sua accettazione: può essere un atto di consapevolezza del limite dell’esistenza umana, un’assunzione della misura non infinita della propria capacità di tollerare la sofferenza e, come vedremo, persino un’espressione di amore nei confronti del prossimo”.
Personalmente, dunque, condivido le righe conclusive del recente documento, cui ho fatto cenno, del Movimento cattolico “Noi siamo chiesa”: “Davanti al tema del fine-vita, ultrasensibile, che coinvolge il vissuto più intimo della persona umana, i toni gridati, le campagne, la volontà di fare pressione sul Parlamento ed altro ancora dovrebbero essere superati. Vale di più pensare e realizzare, anche nelle tante strutture sanitarie della Chiesa cattolica, la linea dell’accoglienza, dell’attenzione alle solitudini e alla domanda di spiritualità che è presente nel fine-vita, delle terapie utili (palliative e non), della comprensione dell’irriducibile unicità della condizione del singolo paziente. Vale di più combattere le grandi sperequazioni esistenti tra chi può sempre curarsi bene e chi può solo curarsi male o non può curarsi mai”.