Il magistrato e gli autografi - Live Sicilia

Il magistrato e gli autografi

Antonio Ingroia firma autografi agli studenti al Festival della legalità di Villa Filippina, dopo la sua lectio magistralis. Cosa significa?

Il Festival della legalità
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PALERMO- Ora noi dobbiamo compiere uno sforzo sovrumano. Dobbiamo dimenticare tutte le parole dei giornali, dei telegiornali, sulla guerra crudele fra politica e magistratura. Dobbiamo cancellare il conflitto di attribuzione, il tenebroso svolazzo di toghe che sempre accompagna le riflessioni di una certa parte e l’aureola odorosa di incenso che, per contrappeso, conduce il vessillo ideologico dell’esercito contrapposto. Dobbiamo scordare Giorgio Napolitano, perfino Antonio Ingroia. Dobbiamo mettere in un cantuccio le grida dei talk show aizzate da feroci conduttori, che soffocano in culla ogni ragionamento nascente. E, se ci riusciamo davvero, potremo infine porci la domanda fondamentale: cosa ci racconta, da siciliani, l’immagine di una ragazzina sicilianissima che chiede l’autografo a un magistrato e si fa la foto con lui e gli sorride, come se fosse un calciatore, una velina, una maschera popolare, un papà, un uomo, uno di cui ci si può fidare?

Adesso, nel video girato da Andrea Tuttoilmondo – bravo collega che sa coniugare la prontezza del cronista alla sensibilità del narratore – suona tutto scontato e facile. Sembra banale vedere il dottor Antonio Ingroia, in partenza per il Guatemala, circondato dalle scolaresche con affetto. Invece non è mai stato né banale, né scontato, né facile. E’ evidente che talvolta i giudici eccedano in presenzialismi assortiti. E’ evidente che talvolta i giudici muoiano di solitudine, prima ancora che di pallottole o di tritolo. Non è questo il tema, anche se splende fortissimo il riflesso di un dibattito acceso in ogni pezzetto di cristallo mediatico in cui rifulgano un codice o una toga.

Diversa appare la questione e si scompone in rifrazioni simili. Il sottofondo riluce tanto che vale appena la pena di sottolinearlo. Era possibile immaginare una scenografia del genere nella Corleone, nella Palermo e in ogni città di una Sicilia antica e maledetta? Quando la mafia era una montagna da nascondere. Quando un notista del “Giornale di Sicilia” scriveva dottissimi pezzi per onorare il lavoro del suo magistrato preferito: il dottor Corrado Carnevale, inteso anche “l’ammazzasentenze”, figura fiabesca a metà tra l’ammazzasette delle novelle della nonna e l’applicazione concreta di un delicatissimo e morbido diritto in stile anni Ottanta. Quando lo scempio era storia quotidiana da respirare. Quando la mattanza ammorbava le strade, seguita da sua sorella indifferenza. Quando Riina era un rispettabile boia latitante. Quando le norme di Cosa nostra erano il Vangelo della brava gente da Chiesa. Quando tutti questi quando in fila indiana spellavano il cuore delle persone di buona volontà, mai avremmo visto una mano tesa verso il giudice, lo “sbirro” e il questurino. Ci sono voluti i morti per restituire vita all’onestà.

Poi ci sono piccole e non meno importanti illuminazioni. Ognuno tragga la sua. La nostra è immediata: non è che la Sicilia sia stata all’improvviso benedetta dal cambiamento. Eppur si muove. Lasciamo indietro le retoriche nemiche e rendiamocene conto: i ragazzi che offrono la mano al giudice, si impegnano per interposta fiducia, nella rincorsa verso il domani. Affidano alla circostanza dell’incontro una cambiale da riscuotere. Tendono le dita alla speranza. E noi speriamo che non crescano mai.


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