PALERMO – Secchi e carrucole portano in superficie le ossa. Bisogna capire a quanti corpi appartengano i resti umani trovati in fondo alla caverna di contrada Casalotto, a Roccamena. Sul posto lavorano ancora, con le luci artificiali, i carabinieri del Gruppo di Monreale, quelli del Ris, gli uomini del soccorso alpino e due esperti, un archeologo e un antropologo forense giunti da Milano.
Sarà compito loro, una volta recuperate tutte le ossa, a stabilire il numero dei cadaveri. Finora sono stati portati in superficie sei teschi, ma la quantità di ossa raccolte farebbe pensare a un numero maggiore di persone. Ci sono anche dei resti di indumenti, forse una scarpa femminile.
L’ipotesi privilegiata resta quella che si tratti di un cimitero di mafia. Lo si intuisce anche perché dopo un primo sopralluogo eseguito dalla Procura di Termini Imerese il fascicolo è passato alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Ad avvertire i carabinieri di Monreale è stata una fonte confidenziale. Di più non trapela.
Perché ha deciso di parlare solo adesso? Forse il coraggio gli è venuto dopo avere assistito, nei giorni scorsi, all’ennesimo blitz contro i mafiosi di Corleone e dintorni. I nuovi capi hanno raggiunto in cella i vecchi padrini che in carcere ci sono ormai da decenni. A inizio estate è morto per cause naturali l’anziano boss di Roccamena, Bartolo Cascio, alleato di Totò Riina e Leoluca Bagarella, tornato in libertà nel 2006 dopo avere saldato il conto con la giustizia. La sua morte potrebbe avere tolto l’ultimo tappo sui macabri segreti della caverna di Roccamena? Ci si arriva attraverso un cunicolo. Poi, si apre la grotta che sprofonda per decine di metri. È un luogo che non si raggiunge per caso.
In ballo ci sono tante ipotesi, alimentate anche dal riserbo sulla vicenda. Non lontano dalla zona del ritrovamento dei resti umani, negli anni Cinquanta, era attiva una colonia agricola dove i detenuti scontavano la pena lavorando. Qualcuno sussurra che potrebbe trattarsi dei corpi di coloro che si opponevano alla costruzione della diga Garcia contro il volere dei corleonesi. È la stessa diga su cui tanto aveva scritto il cronista Mario Francese, ammazzato dalla mafia nel 1979. Oppure potrebbe essere una fossa comune risalente alla guerra mondiale o la sepoltura di qualche ladro di bestiame.
Di certo a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta in quella zona si consumò una sanguinose guerra di mafia. Prima Luciano Liggio fece ammazzare Michele Navarra, era il 1958, e poi si sbarazzò, anche con il metodo della lupara bianca, di tutti coloro che erano legati al medico e capomafia. Nel frattempo si scava nella memoria per capire a chi potrebbe appartenere la scarpa che sembrerebbe un modello femminile. A Vincenzina Marchese, moglie suicida di Bagarella o ad Antonina Altamore, scomparsa nel nulla nel 1975? Nomi tirati fuori dai cassetti della memoria su cui, al momento, non possono esserci né conferme, né smentite.