Il quadro e la tentata estorsione | Assolti il boss Chiovaro e la moglie - Live Sicilia

Il quadro e la tentata estorsione | Assolti il boss Chiovaro e la moglie

La sentenza d'appello ribalta la decisione di primo grado.

PALERMO – Non regge la storia di un’insolita tentata estorsione. Sentenza ribaltata per il boss della Noce, Fabio Chiovaro, e per altri due imputati: assolti dopo che in primo grado erano stati condannati Chiovaro a 7 anni e 6 mesi a Chiovaro, 4 anni e 8 mesi la moglie Loredana D’Amico, 7 anni e 6 mesi Giuseppe Vallecchia. A denunciarli erano stati lo zio e il nipote del mafioso.

Secondo l’accusa, Chiovaro, ristretto al 41 bis nel carcere di Parma, avrebbe chiesto indietro dei soldi prestati allo zio nel 2011. Il familiare, fotografo rimasto senza lavoro, ricevette quattromila euro dal nipote per aprire uno studio fotografico. Nel 2012, dopo l’arresto, durante un colloquio in carcere con la moglie, Chiovaro le avrebbe chiesto di recuperare i soldi prestati allo zio. Poi sarebbero cominciate le minacce. D’Amico era stata fin troppo esplicita quando andò a casa del nipote acquisto: se non avesse restituito subito il denaro “era meglio” per lui andare “via da Palermo”. La donna era tornata alla carica quando seppe che il parente aveva venduto un immobile ed era nelle condizioni di onorare il debito. Ancora una volta la “visita” non avrebbe prodotto effetti.

Per questo reato gli imputati, assistiti dagli avvocati Claudio Gallina Montana, Giovanni Mannino, Debora Speciale e Tommaso De Lisi, sono stati assolti con formula piena. L’altra tentata estorsione ruotava attorno a un quadro venduto dal nipote, un antiquario, al boss. Dopo le manette, la moglie di Chiovaro chiese al parente di rivenderlo e di consegnarle il ricavato. Le difficoltà nella vendita spinsero il nipote a dare un anticipo alla moglie del capomafia che, alla fine, con minacce, avrebbe preteso di nuovo il dipinto senza restituire al parente il denaro dato in conto-vendita. Per questa vicenda, secondo i legali delle difese, al massimo si poteva contestare agli imputati il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Un reato che, però, è perseguibile solo in presenza di una querela della parte offesa che in questo caso non c’era stata. Da qui la soluzione decisa dai giudici di appello.


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