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In questo giorno sono stato tradito

Fra tutti i miei fratelli, uno in particolare - Vladimiro - dieci anni più grande di me, catturò subito la mia attenzione e m’indicò la strada da seguire: quella della scrittura o, meglio, del giornalismo. Lui si dava già un gran da fare, scriveva per sé e per gli altri, fabbricava di sana pianta affascinanti storie sportive...

Che cos’è la vocazione? E’ il richiamo della foresta, l’irresistibile fascino di una voce, che t’incanta e ti porta dove vuole. Io l’ho sentita per la prima volta ch’ero solo un ragazzino, dieci anni o poco più. La mia era una casa speciale, piena di gente, io e la mia famiglia eravamo una tribù, c’era il grande capo, che era mio padre, detto “Il Babbo” e la sua inflessibile severità, c’era la Mamma, sempre trafelata per tenerci a bada con la sua infinita dolcezza, c’erano i miei sei fratelli, tutti più grandi di me. E poi c’ero io, detto “u picciriddu”, che ci ho campato una vita su questo fatto, trasformandolo in un privilegio: “Pure io? Ma io sono un picciriddu!”. Era il mio asso nella manica: quando c’era da pagare, al bar, allo stadio o al cinema, io mi tiravo indietro e così pagava uno di loro per me. Una pacchia! Che durò a lungo, ben oltre l’età dell’infanzia.

Io avevo una qualità rara, data l’età: osservavo, prendevo mentalmente nota, registravo nelle caselle del mio cervello e incasellavo dati, impressioni, sensazioni. Mi veniva spontaneo, evidentemente ce l’avevo nel dna. Così di loro, sapevo sempre tutto, vizi e virtù e all’occorrenza sapevo come servirmene. Ma fra tutti i miei fratelli, uno in particolare – Vladimiro – dieci anni più grande di me, catturò subito la mia attenzione e m’indicò la strada da seguire: quella della scrittura o, meglio, del giornalismo. Lui si dava già un gran da fare, scriveva per sé e per gli altri, fabbricava di sana pianta affascinanti storie sportive, che so?, quelle del Giro d’Italia, prendendo spunto solo dalla radiocronaca dell’arrivo della tappa di Mario Ferretti: “Un uomo solo è in fuga, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è (breve pausa) Fausto Coppi”. Non gli diedi più tregua, lo seguivo ovunque, persino alla redazione del suo primo giornale, il “Sicilia del Popolo”; presi subito confidenza con la macchina per scrivere, mi convinsi anch’io che l’unico lavoro della mia vita sarebbe stato il suo: il giornalista.

E, quando appena ventiquattrenne, il grande Antonio Ghirelli lo chiamò a “Tuttosport”, a Torino, prima che partisse, gli strappai una promessa solenne: “Va bene, Benni: prenditi prima la maturità classica, ché poi ti faccio venire a lavorare con me, a “Tuttosport”. Era – guarda un po’ che ti combina il caso? – il primo maggio del ’60.

Ogni anno, il “Primo Maggio”, Festa del Lavoro, io sento sempre lo stesso grumo di tristezza in fondo al cuore per quel che avrei voluto essere e non sono stato e la sensazione si presenta, forte e prepotente ogni volta di più perché questa è la storia di una parola data e calpestata, di una finestra aperta di fronte al sole e poi sbattuta in faccia. E’ la storia di un “tradimento”, il peggiore possibile, quello di un fratello, scelto tra tutti come modello, come esempio da seguire nella vita e, ancor di più, nel lavoro. Io non andai a Torino e non riuscivo a capacitarmi, perché è tanto bello assecondare la “voce” quanto terribile ignorarla o far finta di non sentirla: è la pena peggiore che un essere umano possa subire. Per mesi io mi sentii l’uomo più infelice della terra, una specie di disgraziato, colpito dalla peggiore sfortuna possibile: quella di amare un lavoro e non poterlo fare, senza ( e questo accresce il disagio dell’anima) che tu ne abbia nessuna colpa.

Per puro istinto di conservazione, reagii cercando altre strade, altre “voci”: se hai sofferto molto per qualcuno, per qualcosa, sei disposto a tutto pur di fermare il dolore. E dimenticare. Così, fra le tante facoltà universitarie, scelsi l’unica senza l’obbligo della frequentazione, la giurisprudenza, il che mi consentiva di restare un “uomo libero”, libero di seguire comunque la mia vocazione: quella di scrivere, e di farlo per un giornale. Approdai a “L’Ora”, ma da freelance, come si chiama oggi un qualunque collaboratore esterno, pagato ad articolo. E ci restai vent’anni, fino alla sua chiusura e furono vent’anni belli e strazianti ad un tempo, dovendo subire le diuturne piccole-grandi prepotenze dei redattori interni al Giornale, le loro meschine cattiverie, con le quali erano perfino capaci, di tanto in tanto, di farmi “odiare” l’unico lavoro mai amato nella vita: il giornalista. Lavoro che ufficialmente nemmeno esisteva, visto che non ero praticamente retribuito e per vivere frequentavo invece l’unico posto al mondo che avrei evitato con tutte le mie forze: le aule del tribunale.

Ma niente e nessuno c’è mai riuscito a farmi abbandonare i miei “luoghi” prediletti, lo stadio e la redazione del giornale, la macchina da scrivere e i miei block notes, i miei pomeriggi in curva Nord tra gli ultras e, nelle trasferte, i pullman traboccanti di passione rosanero, tra bandiere al vento e nel vortice di cori e inni per la vittoria, che sono belli perché sono semplici, ingenui, infantili. Com’è sempre l’amore, quand’è totale, puro, incontaminato. Ho sofferto per anni, giorno dopo giorno, il fatto di dover trattar di codici, leggi e cavilli giuridici, dei quali non me ne importava un fico secco; avvilirmi di continuo per capire le perfide sottigliezze giuridiche di certe imperscrutabili (almeno per me) sentenze di Cassazione, in virtù delle quali ad aver ragione non era mai quello che pensavo io. E, magari, lo difendevo in giudizio. Raccogliendo, alla fine, solo delusioni e, quel ch’è peggio, il sorriso di scherno del cliente. “Avvocato, a causa pirdiemmu!”. E finiva sempre allo stesso modo: che se andava senza pagare. E senza che io avessi mai il coraggio di richiamarlo all’ordine, ovvero al suo dovere, che era quello di saldare gli onorari all’avvocato.

Eppure, di un lavoro così, io ci ho campato per la vita, fino alla pensione, senza mai sottrarmi al supplizio, neanche un solo giorno: avevo una famiglia da mantenere e, per natura ed educazione, ho il senso del dovere e sono abituato ad assumermi sempre le mie responsabilità. E quelle derivanti da moglie e figlia erano – e sono – primarie: quando c’è stato da scegliere tra loro o la mia passione per stadi e articoli, non ho mai esitato a fare un passo indietro. Io mi voglio bene, come tutti gli esseri umani se ne vogliono; sono egoista quanto basta, come capita un po’ a tutti; cedo alla vanità come tutti, non rinuncerei mai al piacere che mi dà un complimento, una cordiale stretta di mano, dopo un mio articolo ben scritto, ma se mi si pone il dilemma: tu e il tuo lavoro amato fin quasi alla follia oppure la serenità della tua famiglia, continuo a non avere esitazioni e scelgo quest’ultima.

Per tutto questo e altro ancora, il Primo Maggio per me non è mai stato, né mai lo sarà, la festa forse più bella e condivisa da tutta la gente del mondo.

 

 

 

 

 


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