Nella mia strada, e in gran parte del mio quartiere, da più di un anno convivono due impianti di illuminazione pubblica. Quello nuovo, con i pali neri di gusto contemporaneo che si fronteggiano sui due marciapiedi. E quello d’antan, che risalirà agli Anni Sessanta o giù di lì, con le lampade spente che penzolano malinconicamente sulla strada, con l’intreccio di cavi appesi alle facciate dei palazzi a fare compagnia ad antenne, parabole satellitari, motori di condizionatori, reti reggi balconi pericolanti e quanto altro la bruttura urbana riesca a produrre.
Mi hanno spiegato che il vecchio impianto sarà dismesso quando il nuovo sarà completato, e visto che nel progetto si sono dimenticati di una strada centrale del quartiere, bisogna aspettare che il Comune trovi i soldi per realizzare i pali anche lì. E solo allora l’opera potrà considerarsi compiuta e le luci vetuste smantellate. Stando così le cose mai. A prescindere, direbbe Totò, che appare curioso che si progetti un impianto dimenticandone un pezzo, a prescindere che non si capisce perché non togliere il vecchio via via che viene installato il nuovo, la cosa – ogni volta che mi affaccio dalla finestra – mi fa riflettere sul fatto che Palermo è diventata come una casa in cui nessuno fa mai ordine.
Tutto inghiotte questa città, tutto digerisce, tutto metabolizza. È come se vivessimo in un appartamento eternamente a soqquadro, dove si sedimentano cassonetti, paletti, bandiere della visita del papa, cartelli fai da te di traslocatori e artigiani, pubblicità di manifestazioni di un anno fa, luci di ere geologiche diverse. È come se ci tenessimo nelle nostre cucine le lavatrici rotte, nei nostri soggiorni le lampadine fulminate e i divani sfondati accanto a quelli freschi di negozio. Che bello sarebbe fare una pulizia collettiva, civica, con la stessa stanca soddisfazione di chi ha messo ordine nel suo camerino.