PALERMO – Clamorosa svolta nell’inchiesta per corruzione elettorale che ha terremotato il panorama politico siciliano, portando ai domiciliari i deputati regionali Nino Dina e Roberto Clemente e l’ex parlamentare Franco Mineo. Tutti e tre sono stati oggi rimessi in libertà dal Giudice per le indagini preliminari Ettorina Contino perché sono cessate le esigenze cautelari e, soprattutto, perché, sostengono i legali, agli indagati andava contestato un reato diverso.
In sede di interrogatorio, Clemente aveva scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere. Contestualmente i suoi difensori – gli avvocati Marco, Giulia e Valentina Clementi – hanno sostenuto che all’indagato andava contestato un reato diverso. Clemente è finito agli arresti in casa sulla base dell’articolo 96 del Decreto del Presidente della Repubblica 361 del 1957. Un articolo che prevede una pena, in caso di condanna, da uno a quattro anni di carcere, e dunque anche l’applicabilità della custodia cautelare.
Secondo i legali, invece, i fatti oggetto dell’indagine, che non vengono scalfiti nel merito dalla decisione del Gip, vanno inquadrati in quelli sanzionati dall’articolo 86 del decreto 570 del 1970. Un articolo che, dal punto di vista delle contestazioni penali, differenzia il politico nazionale da quello regionale. E le cose cambiano, visto che in questo caso si tratta di un reato che prevede una pena massima di tre anni e cioè al di sotto del tetto dei quattro anni a partire dal quale può scattare una misura cautelare. Da qui la revoca immediata degli arresti domiciliari.
Un principio che va applicato anche alle posizioni di Mineo e Dina (difesi dagli avvocati Ninni Reina e Marcello Montalbano) per i quali nel provvedimento si parla espressamente di cessazione delle esigenze cautelari.
“Sono felice per ciò che è accaduto oggi, di certo non per ciò che era accaduto ieri- spiega Mineo -. Non per questo, pur essendo certo della mia estraneità ai fatti, viene meno la mia fiducia nella giustizia e nel lavoro della magistratura.