“Una realtà devastante, a cominciare dai cattivi odori che ti restano addosso. Mi ha accompagnato un appuntato che non era mai stato a contatto con questa realtà. Sconvolto. ‘Dottore dal vivo cambia tutto, non è come si legge sui giornali…’. Ha ragione”.
Sono le parole del procuratore della Repubblica di Agrigento, Luigi Patronaggio, che le ha rilasciate in una intervista al ‘Corriere’, dopo avere percorso la scaletta della nave Diciotti, fino al suo più remoto orrore. Non sono le mutevoli analisi della politica, legate a questa o a quella strumentalizzazione, flessibili, intercambiabili. Sono le parole di un servitore dello Stato e ricompongono il filo della matassa scompigliata: è da qui che dobbiamo ripartire, dall’odore acre di un’umanità sempre più evanescente.
L’umanità è un mare complesso, diviso in zone che il caso, gli accidenti e la volontà hanno riempito di destini differenti. A bordo di quella nave ormai famosa, col suo carico di disperazione, ormeggiata nel porto di Catania, ciò che è umano è rivestito con il tatto, la vista e l’olfatto degli eventi terribili. La puzza dei corpi costretti alla cattività, privati del ristoro e della terraferma. Le deprivazioni di una condizione che si è aggiunta al travaglio già sostenuto. Infine, ecco l’estrema condanna. Ecco l’assenza generica, a parte qualche minoritaria e rumorosa eccezione, di un sentimento di condivisione, benché minima, con le tribolazioni patite dai viaggiatori, loro malgrado.
Ed è questo che colpisce: si può discutere sulle migrazioni, si possono avere idee politiche di destra o di sinistra a riguardo, in una rappresentazione retorica che va, nel suo pentagramma schizofrenico, dall’accoglienza a tutti costi all’invasione senza se e senza ma. Sono gli estremi del nostro dibattito pubblico, incapace di organizzare riflessioni di senso compiuto, avendo appeso tutti i suoi significati alla sveltezza dell’ultimo tweet.
Ma quello che, appunto, colpisce, che percuote e che segna è il tono maggioritario con cui, tra i bar e i social, si narra di una evidente catastrofe. Dall’irrisione della ‘pacchia’, alla minimizzazione dei disagi, all’indifferenza sulla salute e sulle condizioni dei residenti di questa o quella nave su quello o questo mare. Qui non c’entra la politica divaricata in slogan irriducibili, perché c’è già entrata, prendendo possesso del contesto, l’assuefazione a un tratto disumano. Noi vediamo appena ‘migranti’ e ‘minori’, figure spersonalizzate, ridotte a gergo burocratico da ministero, ombre e pedine. E non scorgiamo più l’uomo nel frangente della sofferenza, l’essere umano che avrebbe bisogno di acqua per la sue sete di solidarietà.
Paradossalmente, e nemmeno tanto, si potrebbe pure concordare con un indirizzo governativo di chiusura totale dei porti, mantenendo intatto il rispetto per le persone coinvolte da un provvedimento così drammatico. Invece, tra i social e i bar, è tutto un tripudiare, un fiammeggiare di logorroici fuochi d’artificio, come se le lacrime di un bambino, nel togliere qualcosa di immenso a lui, dessero a noi, purissimi ariani di Sicilia e di ogni dove, il premio di una guerra vinta contro un nemico che non c’è.
Claudio Fava, uno che adopera le parole con misura e sensibilità, anch’egli appena disceso dalla nave, ha detto: “Il ministro dell’Interno, che parla di ‘palestrati’, dovrebbe venire qui, salire a bordo, interrompere le sue vacanze, misurare il grado muscolare di questi migranti e farsi raccontare le loro storie”.
Non c’è altra strada, in effetti. Non c’è altro che un gentile e risoluto ‘salga a bordo, per favore’, magari con l’immaginazione, con la tenerezza che rende un uomo-uomo e dunque riconoscibile. Non c’è altro: chiudere la nostra finestra ripiegata sul mondo, abbandonare la sicurezza dei rancori e migrare in cerca dell’odore smarrito che fa l’umanità.

