La donna che non poteva morire - Live Sicilia

La donna che non poteva morire

Ricordate la storia del calzolaio indiano che non può morire? Accadde anche a Palermo. Clotilde N. era appena una bambina quando Giuseppe Verdi spirò. E anche lei non poteva morire. Ecco perché.

Chi si è meravigliato dell’uomo che sostiene di avere centosettantanove anni, ascolti ora la storia di Zia Clotilde che era una bambina quando l’Italia piangeva la scomparsa di Giuseppe Verdi. Fu dimenticata a lungo dalla morte. E c’era una ragione precisa.

L’ultima volta che ci incontrammo io ero un ragazzo, lei aveva solo centodue anni. Mi parlò amabilmente all’ombra di un albero della sua casa di riposo. Mi interrogò sui particolari di un’epoca ormai spenta, con domande dettagliate. Infine capii che era convinta di parlare con un altro. Quando Zia Clotilde biascicò: “Mi dica tutto, mi dica della sua esperienza di sottotenente nella prima guerra mondiale”, non ebbi il coraggio di deludere il suo cuore candido come i capelli. Non avevo una macchina del tempo. Non avevo passato un inverno al fronte.
Allora inventai. Le raccontai cose che non erano mai esistite. Immaginai agguati nel buio, baionette luccicanti, cannoni fiammeggianti, rifacendomi al Corsaro nero. Il sangue no. Il sangue vero, rappreso, che puzza e sa di rantoli e sbudellamenti non è mai gradito quando la guerra si traveste da letteratura, cioè da menzogna

Il sangue, però, glielo leggevo negli occhi, in una sintassi differente dalla mia. Quella che per me era la rievocazione di vicende lette, adattate per reggere l’inganno, per Clotilde era sostanza. Io non mi soffermavo sui corpi distesi ad asciugare nelle trincee, sventrati da una lama o da una mitragliatrice. Lei li vedeva, anche nel buio in cui li avevo nascosti, perché non mi interessavano, perché non erano corpi. Erano paragrafi di un libro, pagine sfogliate. Erano parole.
All’ombra di quell’albero, zia Clotilde, dopo avermi sopportato con un’espressione tra l’estatico e l’annoiato, mi confessò il suo segreto, con una adorabile aria da complottarda. “Vedi figlio mio, io sono immortale – disse – e ti spiego perché. Quando ero piccola, mia sorella morì di malattia. Ero disperata, piangevo, urlavo. Non potevo accettare il fatto. Così mi infilai nella bara vuota che era stata sistemata per la mia povera sorella, con le braccia in croce. E ce ne volle un po’ per farmi uscire. A’ muorte mi vitti. La morte mi ha visto ed è convinta che io sia già morta, perciò non tornerà più da me”.

Questo mi narrò zia Clotilde, farfugliando e sputacchiando per via della dentiera. E, nel frattempo, un po’ sorrideva, un po’ faceva gli occhi tristi. Forse sorrideva della gioia di credersi immortale. Avrebbe visto lo scorrere delle stagioni e del mare, avrebbe assistito alla nascita e alla morte di alberi e fiori. Nuove rughe le avrebbero popolato le guance, i capelli si sarebbero ulteriormente ritirati. Il suo cuore non sarebbe appassito. Non ci sarebbero mai stati ultimi sguardi, né ultime frasi. Forse gli occhi erano tristi per la pena di credersi immortale. Il corpo avrebbe sofferto, senza morire. Avrebbe viaggiato senza fermarsi mai. Gli occhi mi parevano proprio tristissimi: avrebbero continuato a vedere gli altri cadere al cospetto di quella umanissima eternità, talmente forte da non trascorrere, talmente debole da continuare ad amare e perciò, davvero a soffrire.

Racconta Wikipedia, oracolo dei nostri giorni: “Giuseppe Verdi morì a Milano in un appartamento dove era solito alloggiare dal 1872 al Grand Hotel et de Milan alle 2:50 del 27 gennaio 1901, a 87 anni. Era venuto nella città lombarda per trascorrervi l’inverno, come faceva da tempo. Colto da malore, spirò dopo sei giorni di agonia. Il Maestro lasciò istruzioni per i suoi funerali: si sarebbero dovuti svolgere all’alba, o al tramonto, senza sfarzo né musica. Volle esequie semplici, come semplice era sempre stata la sua vita. Le ultime volontà del compositore vennero rispettate, ma non meno di centomila persone seguirono in silenzio il feretro”. Le strade dei dintorni furono coperte di paglia, per non disturbare il riposo.

Clotilde N., Zia Clotilde, aveva nove anni quando Giuseppe Verdi fu calato nella bara, con i sogni del millennio, tra gli abbracci feroci di Otello e lo sguardo corrusco di Manrico nel duello con l’acerrimo Conte di Luna. Era come la paglia soffice dei giorni che diventano secoli, mentre si sommano gli uni con gli altri. Morì anche lei, in una sera di maggio del Duemila, all’alba di un diverso millennio. Aveva cento e otto anni. Non era servito il dolore, né la teatralità, né il lutto trasformato in opportunità: a’ muorte mi vitti e per questo non avrebbe più cercato la tenera Clotilde. Non andò così. La morte vede sempre, cerca sempre. E se sembra che non cerchi e distolga lo sguardo, sta solo facendo finta.

Il calzolaio indiano di centosettantanove anni, settantuno in più, procede su un confine parallelo. Ha già scolpito il suo testamento, molto simile: “E’ come se la morte si fosse dimenticata di me. Ho perso ogni speranza, nessuno campa fino a centocinquanta, figuriamoci a centosettanta. Sarò immortale. A questo punto potrebbe anche farmi piacere”. E voi, in cammino tra alberi, mare e terra, vorreste essere immortali? Avreste il piacere di non appassire più, eterni come sono eterni i fiori nei nostri sogni?

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