La fine della “Fase 1” è alle porte, ancora pochi giorni e poi dal 4 maggio si passerà gradualmente al secondo momento dell’emergenza sanitaria: la convivenza con il virus dai mille aculei sarà – è facile immaginarlo – sacrificante e difficile tanto quanto il periodo appena trascorso.
Giunti al termine della fase di un fenomeno si può provare a tracciare due bilanci. Quello consuntivo è facile illustrarlo, e per non deprimervi lo diamo per scritto, letto e approvato. Quello di previsione è molto incerto: cosa erediteremo dal “lockdown”? Saranno eredità passeggere, destinate ad essere accantonate nel breve o medio periodo, oppure qualcuna delle trovate emergenziali potrà essere adottata in pianta stabile?
Il lavoro “agile” – in verità agile mica sempre, perché diventa piuttosto impacciato se il computer decide di imbizzarrirsi o di attardarsi svogliatamente su una certa operazione – è, dice qualcuno, una di quelle eredità della quale non ci sbarazzeremo così facilmente. Non so se sia un male o un bene, quali ricadute potrà avere sul mondo del lavoro e sul bilancio perennemente rattoppato e preoccupante dell’occupazione: lascio agli esperti valutarne l’impatto e le conseguenze. Per far fronte all’emergenza, si è dovuto fare ricorso al lavoro da remoto anche nel delicato ambito della giustizia penale, celebrando alcune tipologie d’udienze con tecniche informatiche rispettose del distanziamento sociale. Intendiamoci: non è che per gli addetti ai lavori questo sistema sia del tutto nuovo; da anni, ad esempio, i collaboratori di giustizia e i detenuti in regime di carcere duro partecipano alle udienze in videoconferenza. Secondo il decreto “Cura Italia”, appena convertito in legge, questo schema operativo è stato, per il solo periodo emergenziale, esteso praticamente a quasi tutte le svariate tipologie di attività che possono compiersi in un’aula di tribunale e non solo a quelle: anche alcune attività d’indagine potranno essere condotte “da remoto”.
La reazione dei difensori è stata un quasi corale grido al sacrilegio. Strali infuocati sono stati scagliati non soltanto contro le norme emergenziali – certamente abborracciate e perfettibili – ma soprattutto contro l’idea in sé che possa utilizzarsi lo strumento informatico per celebrare un processo penale al di fuori delle ipotesi eccezionali in cui era già consentito farlo. Mi sembra di aver capito che l’avversione affondi le sue radici nella preoccupata percezione del terrore dello svilimento dell’attività difensiva: secondo alcune opinioni, certe correnti di pensiero istituzionali avrebbero il desiderio di imprimere al processo penale una impronta autoritaria e di mettere il bavaglio agli avvocati.
Il confinamento del difensore fuori dallo spazio fisico dell’udienza dovrebbe servire a questo scopo: depotenziarne il ruolo e ridurlo ad un’immagine sul monitor di un computer. Vorrei sbagliarmi, ma temo che l’impostazione del problema non sia corretta e riproponga, in chiave telematica, la solita sfiducia reciproca tra le istituzioni coinvolte nella questione, sempre pronte a guardarsi in cagnesco nel timore vicendevole che l’una voglia delegittimare o soverchiare l’altra. Credo sia il caso di finirla una volta per tutte con la teoria dello strapotere del magistrato o dell’avvocato nel processo. Non esiste alcuno strapotere: se il rapporto tra i protagonisti di una specifica vicenda processuale non è equilibrato il più delle volte si deve al fatto che qualcuno di loro sbaglia in qualcosa: nell’atteggiamento, nei toni, nel grado di preparazione. E’ un problema di uomini, non di ruolo o di categoria.
Non posso credere nemmeno un po’ all’esistenza di un disegno ordito da qualcuno, con la complicità di qualcun altro, per fare sì che il processo penale si svolga senza avvocati o col difensore ridotto a un simulacro di se stesso. Mi pare piuttosto l’ennesima manifestazione della solita passione nostrana per la ricerca della trama oscura, del complotto istituzionale per non concentrare l’attenzione sul vero problema: fare in modo che un meccanismo “giri” al meglio.
Anzi, ritengo che sia un dovere morale, prima ancora che giuridico, credere esattamente nel contrario: la lealtà dei protagonisti va data per presupposta, e il contrario va dimostrato caso per caso. Bisogna convincersi che la faziosità, il pre-giudizio costituiscono l’eccezione, non la regola. Soltanto con queste premesse le istituzioni potranno collaborare con profitto per il miglioramento del “servizio giustizia”, se così lo vogliamo chiamare. Una risorsa, in questo momento storico difficilissimo, può essere la tecnologia di comunicazione a distanza con strumenti telematici: prima di cestinare l’idea, almeno proviamo a vedere se può funzionare. Le prime applicazioni non sembrano avere trasformato il processo in un soliloquio del giudice o del pubblico ministero: si tratta semmai di migliorarne il funzionamento, di selezionare dove e come può farsene applicazione. E di farlo possibilmente senza il fracasso degli slogan a fare da sottofondo.