Meglio di Orlando contro Rinaldo il duello tra Alfio Barbagallo, deputato del Parlamento siciliano, contro l’abicì della lingua ‘taliana. Il signor Barbagallo – allevatore equino, deputato per caso – con la propria Durlindana di scarsezza e di superbia si scaglia contro lo spaventoso drago della sintassi e della consecutio temporum.
Il video del suo esordio da parlamentare – subentrato pochi giorni or sono a Gino Ioppolo, eletto sindaco a Caltagirone – non teme il confronto con Checco Zalone. Trionfa sui social dove però, accanto al divertimento dello spettabile pubblico – ognuno di noi, partecipe del duello coi propri inciampi – s’aggiunge il mugugno dei radical chic.
Dimenticano i nobilissimi analfabeti, a suo tempo fatti deputati dal partito comunista, e commentano con quella punta di razzismo propria di chi pesta un muro basso per sentirsi superiori. Oltre che di dividere il lettino de l’Ultima spiaggia con i profughi si meritano di trovarsi alle prese con un altro deputato siciliano. Anche lui un Barbagallo, di nome Salvino, passato da tutti i partiti, che di fronte a una discussione animata a Sala D’Ercole – l’aula del parlamento che fu di Federico II – va al microfono e porta la calma con queste precise parole: “Spengo la luce, scendo fra i banchi e sono timbulate per tutti”. Laddove per timbula s’intenda la guancia, e dunque sono ceffoni quelli promessi da questa specie di Incredibile Hulk di 160 chili per 2 metri d’altezza, tutti di muscoli e di suffragio universale.
Così è stato. E così è, la Sicilia. E il racconto della politica è meglio dell’Opra – l’Opera dei pupi – laddove la suprema scienza aristotelica della polis, tra le città del mondo, non può prescindere da Catania.
E’ l’urbe dell’Elefante la cui proboscide a guardia del palazzo del Municipio è carisma di pazienza. Ed è l’antidoto al fanatismo della legge se ancora qualche anno fa – con Renato Brunetta reclamante efficienza dagli impiegati pubblici – passando nei pressi del Castello Ursino, proprio davanti l’ingresso dell’Ufficio Anagrafe, assistevamo a una scena definitiva.
Il responsabile dell’ufficio se ne sta appoggiato allo stipite della porta. Fuma tranquillo la sua sigaretta. Un passante gli chiede: “Non lavorate di pomeriggio, vero?”. L’impiegato stacca dalle labbra la cicca, soffia un filo di fumo e – dando un’occhiata dentro, tra le operose scrivanie – risponde: “Caro amico, il pomeriggio siamo chiusi, è la mattina che non lavoriamo”.
La politica, in Sicilia, è un continuo Sedotta e Abbandonata. Così è stato, così è. I cani randagi, ancora ieri, nel piazzale dell’aeroporto danno il benvenuto ai turisti che s’avventurano verso i parcheggi distribuendo pulci e muzzicuna ma l’epopea che decifra meglio la crisi – così è, così è stato – è quella che si vive sui mezzi pubblici.
Al Fortino, ovvero Porta Garibaldi, i devoti di “Sant’Agata d’estate” aspettano da quasi due ore alla fermata. Un autobus, finalmente, arriva. La folla può allocarsi nell’apnea del primo pomeriggio ma una signora – in viaggio per la novena di vigilia – sfinita, protesta. Forse la veemenza è inadatta a una pia attesa però il paziente e carismatico autista, dipendente pubblico, sa come disinnescare l’esplosione: “Signora cara, perché se la prende così in criminale; avevamo forse un appuntamento io e lei?”.
Scarsi e superbi, i siciliani, fanno di necessità vizio. E sempre è stato – come, così è – da quel mattino dell’aprile 1971 quando, a palazzo degli Elefanti, sede del Municipio di Catania, alle 7.30 del mattino, immancabilmente, si presenta un tipo che da un anno ormai celebra un suo speciale rituale. I lettori del Fatto Quotidiano ricorderanno questo capitolo dell’Opra.
Eccolo, ha il passo indolente del trentenne canuto di furbizie e però bellino di presunzione. Raggiunge l’apparecchio di marchiatura appeso alla parete e vi timbra il cartellino. Uscendo, invece che entrarvi negli uffici, si piazza in mezzo al corridoio. Solleva i propri pantaloni nel frattempo scivolati sotto la cintura e urla: “Schiavi, voi restate qui a lavorare e io me ne vado a passeggiare”.
Grida in faccia quell’improbabile saluto ai propri colleghi. Non pago, poi, guadagnandosi la scena al centro del magnifico cortile del palazzo, accompagna la piazzata con un tiè. Sbattuto sul braccio a significare ciò che ben significa. Mentre la parola “schiavi” echeggia ancora tra corridoi, scale e stanze.
Una scena quotidiana che diventa presto insopportabile. Il tipo, infatti, non solo già da un anno strilla l’irrepetibile epiteto – schiavi! – provocando un’alzata di spalle dei colleghi, usi al carisma e alla pazienza, ma lo ripete adesso alle guardie e anche al capo ufficio a cui, riservando un trattamento speciale, domanda: “Lei è il segretario comunale?”.
Alla risposta affermativa del dirigente, ripete il suo solito gesto – sarà un tic – solleva i calzoni, e così prosegue:
“Me ne compiaccio. Veda però, adesso, di andare a fare in culo. Io me vado a passeggiare”. Se ne va e innesta, nel silenzio dell’intero municipio, ancora una frustrata: “Schiavi!”.
Non è un pazzo, è un dipendente, regolarmente iscritto al sindacato. Il fatto venne riferito al sindaco, Turi Micale che, alle 7.30 del giorno dopo – sollecitato da tutti, non solo dal segretario comunale – attende nell’atrio del Municipio per intervenire.
Succede il fatto e Micale, con la fascia tricolore, interviene: “Come si permette? Vada a lavorare!”. Le burocrazie, finalmente, trovano giustizia. Quasi sta per scattare un applauso al sindaco quando il tipo, alzandosi le brache (svelando un polpaccio grande quanto quello dell’Elefante), domanda:
“Lei è il sindaco? Me ne compiaccio. Veda però di andare a cacare. Io me ne vado a passeggiare”. Davanti a quell’insolenza Micale dà disposizione di redigere la lettera di licenziamento, se la fa portare sulla propria scrivania, dopo di che – paziente e carismatico qual è – cercando in una cartella grigia di sua continua consultazione, fa per un po’ il confronto tra l’uno e un altro foglio. Quello del licenziamento e quello – tutti sanno cosa sia – con l’elenco dei raccomandati.
Così è stato, così è. Quanto a colpi di scena, meglio dell’Opera dei Pupi. Il nome del vastaso coincide con il primo della lista. E’ segnalato da Nino Drago, potente boss democristiano. Micale indica la prima riga dei raccomandati, quindi – con la penna puntata sopra – controlla il nome del reprobo da licenziare, tira un sospiro e si butta la biro alle spalle. Non senza, prima di muovere il passo, sollevarsi anche lui i pantaloni, dice: “Non so voi, ma io me ne sto andando a cacare”.
Ecco, quel che c’era una volta, c’è ancora.