La morte di un uomo solo - Live Sicilia

La morte di un uomo solo

Spegnersi in una strage è forse meno atroce che sopravvivere alla strage degli ipocriti e degli amici dalle lacrime false?
“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrato in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”, queste erano le parole del Falcone uomo solo, del giudice vittima dei giudici, del designato dalla sedia tolta.
C’è più Falcone in questa frase rilasciata a Marcelle Padovani che in tutte le fiction, i ricordi di chi ha succhiato il sangue del giudice morto. Diciotto anni e non bastano ad asfaltare la strada della verità, a consegnare ad un manuale storico una chiara interpretazione dei fatti, ma anche la ricerca della verità può a volte essere l’antitesi del vero, si può morire più oggi all’Addaura che ieri, si può fare più male oggi a Giovanni Falcone con le dichiarazioni da gratta e vinci.
La storia delle stragi non è infatti solo la tragedia di un Paese, il fegato guasto di una Repubblica sotto scacco, ma è prima di tutto la giustizia malata di giustizia, la bilancia starata che ha fatto del massimo esperto di mafia un eterno secondo, un uomo in lotta con i colleghi, un perseguitato per troppo sapere.
A guardarla oggi tra pezzi mancanti (agenda rossa di Borsellino) e ipertrofia di parole(Ciancimino), sembra la profezia del Paese che sarebbe diventato: poteri che si avversano tra di loro, polizia che viaggia sul confine, l’antimafia che sarebbe andata in Parlamento a difendere i magistrati (Leoluca Orlando) prima di combatterli.
In realtà da vivo Giovanni Falcone che è il simbolo di quell’esperienza culminata nell’istituzione del pool guidato da Antonino Caponnetto, fu avversato e criticato come Pasolini; entrambi lasciati soli e osannati come martiri, simboli facili da usare come le bandiere.
Ed è il grido di Ilda Boccassini a ricordarlo, che non esitò – pur lavorandoci insieme- a criticare Gherardo Colombo e tutti i colleghi che di quel giudice non si fidavano e per ben due volte gli preferirono magistrati non specializzati in mafia che distrussero la tela d’informazioni costruita. Quando Falcone parlava di alleanze, si riferiva all’aria pesante che circolava nei palazzi di giustizia, alla diffamazione che si nutriva tra le loro stesse viscere; cos’era se non l’anticipo delle talpe in procura, degli spifferi che permettevano la latitanza dei “ricottari”?
Però se da quella stagione l’Italia è riuscita a “tirarsi fuori”, lo deve prima di tutto al metodo-Falcone che era poi quello del Bellodi de “Il giorno della civetta”: scandagliare le carte, i conti bancari cogliere i collegamenti tra inadempienza fiscale e catasto. Non è altro che il metodo dell’indagine ramificata quella che dal semplice spaccio di stupefacenti s’interseca con la politica, la sanità e il sesso; quello che per disegno di legge dovrebbe essere impedito in nome della riservatezza. Ma la riservatezza dell’onesto poche volte ha a che fare con le ricetrasmittenti dei nuclei operativi, quasi mai s’imbatte in amici che pagano le case a nostra insaputa.
Eppure era il metodo di un uomo “bocciato” quasi sempre dallo Stato tanto da ottenere la nomina a superprocuratore solo il giorno prima di morire; colui che aveva insegnato a sospettare degli insospettabili muore di sospetto, «la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo», diceva il giudice .
Perché nel paese del vizio, pure la solitudine viene interpretata come segreto, il ricordo di una strage l’occasione per sciogliere la lingua e far sfilare le parate.
Non camminano le idee di Falcone su altre gambe semmai camminano sempre da sole sulle spalle di uomini altrettanto solitari, come i cavalieri erranti, come piccoli portatori d’acqua e di speranza che s’annaffia a Catania nel quartiere di Librino colorata o nello Zen di Palermo che resiste senza la sicumera del mafioso e chiede quello che è un diritto : la casa. Se qualcosa ha lasciato quella strada divelta di maggio è proprio la paura di vivere nell’insicurezza, il desiderio di uscire per strada senza l’odore del sangue. Per chi come i siciliani vive la paura ancestrale di uscire fuori di casa, dall’isola che è grembo e prigione, la strage è stata la suppurazione della ferita e la necessità dello iodio che si respira sia per mare che nelle librerie aperte di domenica 23 maggio insieme a quelle carte compagne dei giudici insonni come del disoccupato con le sue gazzette di cartapesta.


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