di ANDREA PURGATORI (www.corriere.it) A volte le conseguenze della ragion di Stato sono imprevedibili. Trent’anni fa, Muammar Gheddafi era il nemico numero uno dell’Occidente. Pur di eliminarlo il presidente americano Ronald Reagan autorizzò una spedizione transoceanica di alcune squadriglie di cacciabombardieri che martellarono inutilmente Tripoli e Bengasi. Oggi il colonnello va a bere il caffè a Piazza del Popolo. Peccato però che da allora nessun capo di governo (soluzione bipartisan) gli abbia mai chiesto ufficialmente di rispondere alle domande della magistratura sulla strage di Ustica. Eppure si è sempre definito come la vittima designata di quella sera in cui 81 cittadini italiani furono uccisi a bordo di un aereo in volo da Bologna a Palermo. Questione di petrolio?
Trent’anni sono un tempo infinito per i familiari di quelle 81 vittime che devono ancora avere giustizia. Ma forse sono un tempo sufficientemente congruo perché la verità storica affiori su quella giudiziaria e sopra la montagna di carte processuali (più di tre milioni) che almeno una cosa, incontrovertibilmente, la raccontano. C’erano almeno sei caccia che prima, durante e dopo l’esplosione volavano in prossimità del DC9 Itavia, tutti con il transponder spento (per impedire ai radar di essere identificati). E che dunque l’aereo di linea si trovò nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Lo dice una commissione di tecnici della Nato, di cui faceva parte anche un alto ufficiale della nostra Aeronautica. Sono stati loro, chiamati nel 1999 a rispondere ad una rogatoria formale (con l’assenso di tutti i paesi membri dell’Alleanza, nessuno escluso) che, sulla base dei dati radar decodificati grazie ai manuali del sistema integrato di difesa aerea, hanno certificato lo scenario di guerra non dichiarata che qualcuno si ostina ancora a ignorare. Ciò che quella perizia afferma è semplice e agghiacciante.
Primo. Il DC9 fu «agganciato» da uno o due aerei non identificati dopo il decollo da Bologna e prima di sorvolare Firenze. Aerei che per coprirsi sfruttarono il segnale radar del DC9 fino al cielo di Ustica. È molto probabile che si trattasse di caccia libici provenienti da Banja Luka (ex Yugoslavia), dove effettuavano la manutenzione. Nelle carte della sede Sismi di Verona (quelle sfuggite a un incendio che distrusse l’archivio), c’è il riscontro. Con un’informativa che chiarisce come i servizi segreti francesi ci avessero fatto sapere che quel vizietto di consentire ai libici di tornare verso Tripoli sorvolando il Tirreno doveva finire, altrimenti il prossimo l’avrebbero buttato giù. Secondo. Sull’appennino, il DC9 e la sua «coda» furono incrociati da un intercettore F104S da addestramento con a bordo i capitani Ivo Nutarelli e Mario Naldini (morti nel 1988 a Ramstein, durante una tragica esibizione delle Frecce tricolori). L’incrocio deve essere stato talmente ravvicinato e allarmante che, affermano i tecnici dell’Alleanza, prima di atterrare nella base di Grosseto i due ufficiali segnalarono la massima emergenza secondo le procedure previste dalla Nato. Cioè, volando a triangolo sulla pista e «squoccando» per tre volte col microfono senza comunicare via radio.
Terzo. I tabulati radar indicano che mentre il DC9 volava verso Ustica, dalla base dell’aeronautica francese di Solenzara (Corsica) e probabilmente da una portaerei sconosciuta (alcune tracce originano dal mare), si alzarono in volo almeno sei caccia le cui traiettorie si riscontrano senza ombra di dubbio in prossimità dell’aereo di linea prima, durante e dopo l’esplosione. A quel punto, erano quasi le nove di sera. Ma sorprendentemente, in 13 risposte alle rogatorie della magistratura italiana, il governo francese ha sostenuto che l’attività della base di Solenzara terminò alle 17,30 nonostante tutti i radar e le testimonianze dirette smentiscano questa versione (una è del generale Nicolò Bozzo, braccio destro di Carlo Alberto Dalla Chiesa all’antiterrorismo, che si trovava proprio a Solenzara in vacanza). A Solenzara si decollò e atterro fino alle 22,30.
L’inchiesta della magistratura per accertare le cause della strage non si è mai interrotta, nemmeno dopo la sentenza ordinanza del giudice Rosario Priore che rinviò a giudizio per depistaggio e con l’aggravante dell’alto tradimento i quattro generali al vertice dell’Aeronautica nel 1980 (assolti dalla Cassazione). E in questi giorni la Procura della Repubblica di Roma è in attesa che dalla Nato arrivi un supplemento di perizia che potrebbe portare all’identificazione di due o forse tre di quei caccia fantasma che erano in volo quella sera. Se così fosse, la verità su Ustica sarebbe davvero a portata di mano. Ed è per arrivare a questo risultato che da più di un anno, con discrezione estrema, attivando tutti i canali diplomatici e giuridici a sostegno dei magistrati romani, sta lavorando il capo dello Stato.
Giorgio Napolitano è abituato a misurare le virgole e a pesare le parole, dunque non è un caso che poco più di un mese fa abbia parlato di Ustica affermando che questa strage è segnata da «intrighi internazionali che non possiamo oggi non richiamare, insieme con opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato, ad inefficienze di apparati e di interventi deputati all’accertamento della verità». Ma il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che nel 1980 guidava il governo, da un paio d’anni è andato ben oltre, dichiarando apertamente (e a verbale) di aver saputo già all’epoca che ad abbattere per errore il DC9 in un’azione di guerra contro aerei militari libici fu un caccia francese. E che il pilota di quel caccia, una volta rientrato alla base e scoperto cosa aveva fatto, si sarebbe suicidato.