Il primo è stato Leoluca Orlando. Il sindaco che manco si presentò ad accogliere a Palermo Giuseppe Conte, per protesta, e che del governo del professore-avvocato pugliese ha detto tutte le possibili nefandezze in questo anno e mezzo, è stato tra quanti non hanno battuto ciglio di fronte alla scelta di riconfermare lo stesso premier nel nuovo governo giallorosso, che s’aveva da fare. Orlando si è esposto nei giorni caldi della trattativa, pronunciandosi in favore dell’ardito matrimonio tra dem e grillini pur di sbarazzarsi di Matteo Salvini. E come il leader anche altri esponenti della sua creatura che fu, la Rete, sparsi sul web hanno fatto sentire la propria voce favorevole all’alleanza con i 5 Stelle. Fino a venerdì quando su Twitter ha battuto un colpo anche padre Bartolomeo Sorge, che ha scritto: “Benedetto l’autogol di Salvini! Con il Conte bis ha prodotto in Parlamento un sussulto di coscienza democratica: un Governo nuovo, competente e giovane”. Un commento entusiasta quello del gesuita che con lo scomparso padre Pintacuda fu tra gli ideologi e padri nobili di quella stagione giustizialista incarnata da Orlando e dal suo movimento, ispirata al celebre concetto per cui il sospetto è “anticamera della verità”. O magari “anticamera del khomeinismo”, corresse all’epoca Giovanni Falcone, che visse sulla propria pelle il mascariamento dei moralizzatori retini, finendo bersaglio di una dura campagna mediatica. Anni difficili quelli, senz’altro. In cui la richiesta di moralizzazione era spinta spesso da un sincero afflato figlio di un’indignazione per molti versi comprensibile. Ma anche gli anni in cui il giustizialismo manettaro venne sdoganato da un pezzo di intellighenzia tramutandosi nel nostro Paese in patrimonio della sinistra, laddove altrove esso era sempre stato un elemento qualificante delle destre, e anzi, di certe destre.
L’entusiasmo dei reduci retini per l’abbraccio tra sinistra e pentastellati di questi giorni offre l’occasione per interrogarsi su quali in effetti siano gli elementi di contiguità tra grillini e democratici. Molto pochi per la verità. Ma tra questi, il più ingombrante forse, è proprio un giustizialismo dozzinale e poco imparentato con lo stato di diritto che muove sin dalla sua genesi il Movimento e che ha infettato per molti anni un grosso pezzo della sinistra, prima che negli ultimi tempi questa avviasse un percorso che l’ha avvicinata a posizioni più garantiste. È un filone che affonda le radici negli anni di tangentopoli e che fu diversamente declinato. Prima col giustizialismo colto e raffinato, gesuitico si potrebbe dire, della Rete orlandiana. Poi in quello più popolano e populista del dipietrismo, negli anni dell’Italia dei valori, partito di cui Orlando, anche se la cosa oggi è un po’ dimenticata, fu esponente di punta. Fino all’avvento di Grillo, del vaffanculo e degli annessi e connessi, con il giustizialismo che da sempre è uno dei pochi pilastri identitari di un movimento che politicamente è talmente sfuggente nel suo identikit da potersi alleare nel giro di una settimana con la destra più destra o con la sinistra senza la necessità di una minima messa in discussione della propria identità.
Oggi, di fronte ai primi vagiti della “cosa” demo-grillina, uno dei principali interrogativi sta proprio nel chiedersi se alla fine dell’avventura sarà il Movimento 5 Stelle a uscire istituzionalizzato e definitivamente acquisito all’alveo del centrosinistra, magari convertendosi al garantismo o se piuttosto non sarà il Pd a “grillizzarsi” tornando alla stagione della politica dettata dalle inchieste delle procure. Questa seconda possibilità vede proprio nelle posizioni sul tema della Giustizia un terreno scivoloso per i dem. All’interno dei quali le pulsioni in parte accantonate negli ultimi anni sono ancora vive. La conferma al dicastero della Giustizia di Alfonso Bonafede, il ministro tra l’altro promotore della riforma del fine processo mai è un indizio che induce a tenere d’occhio il tema con grande attenzione.