Da diversi mesi la drammatica situazione socio-economica siciliana sembra entrata in una nuova fase destrutturante e implosiva. Gli effetti della crisi economica, combinati con gli effetti dei tagli sempre più consistenti alle risorse della Regione e degli enti locali, hanno intaccato in profondità i già deboli presidii di coesione sociale su cui si è retta per decenni la comunità siciliana, lasciando il suo ceto politico annichilito e quasi inerme, incapace di fornire risposte a pressioni e tensioni in crescita esponenziale.
I bacini clientelari si svuotano a ritmi sempre più incalzanti, dando la stura a rabbia e disperazione senza appigli, perché il sistema di assistenza sociale già debole e frammentato ha subito tagli di entità tale da prefigurare un vero e proprio smantellamento (i tagli ai finanziamenti per i piani di zona del prossimo triennio arrivano fino al 75%!). E sempre più in difficoltà è la stessa macchina della sanità regionale, con i suoi giganteschi debiti e le perduranti macroscopiche inefficienze, per non parlare dello spettro, impensabile fino a qualche anno fa, del mancato pagamento degli stipendi per migliaia di dipendenti di enti collegati alla Regione, il cui rischio di default appare tutt’altro che scongiurato.
Di fronte a uno scenario tanto drammatico quanto largamente prevedibile, sia dal versante politico nazionale, sia da quello regionale, continuano a provenire risposte simboliche o, al più, del tutto fuori misura. Le vaghe proposte sul “servizio civile nazionale per la difesa della patria” lanciate da Matteo Renzi, l’istituzione di un fondo di garanzia per il microcredito siciliano promossa dal M5S o il “decalogo anti-sprechi” lanciato da Davide Faraone rappresentano esempi emblematici di questa tendenza. Per la difficile percorribilità e discutibile efficacia delle prime, per la limitatezza della portata del secondo e per lo scarsissimo impatto che avrebbe un pur condivisibile taglio delle indennità dei vertici apicali dell’amministrazione regionale. D’altra parte, anche la previsione di un drastico ridimensionamento della dotazione organica della Regione (il 30%, secondo la proposta di Faraone), per quanto auspicabile sotto il profilo funzionale, in mancanza di un massiccio piano di investimenti avrebbe lo scontato effetto di amplificare ulteriormente il disagio sociale e contrarre i consumi. Gli stessi fondi europei, per quanto sottoutilizzati e mal spesi, appaiono uno strumento quasi marginale rispetto alle immani proporzioni del deficit di cittadinanza sociale che investe la Sicilia.
In questo contesto, di fronte all’approssimarsi delle elezioni europee, è ancor più sconfortante dover constatare come le principali forze politiche stiano riproducendo la tradizionale tendenza a utilizzare questa consultazione per misurare i rapporti di forza sul piano interno, tralasciando di sottoporre agli elettori un’articolata proposta politica sull’assetto dell’Unione.
Infatti, se le politiche di austerity dell’Unione Europea (ispirate dai paesi economicamente più forti) rappresentano per tutte le forze politiche in competizione un fattore di ostacolo alla promozione di politiche espansive sul versante dello sviluppo economico e del sistema di welfare, risulta altrettanto evidente quale sia la via maestra per invertire queste tendenze: una profonda riforma democratica del sistema di governo europeo fondata su una rappresentanza responsabile di fronte a tutti i cittadini europei e in grado di esprimere un esecutivo ad essa vincolata, ridimensionando significativamente il peso delle istituzioni intergovernative. Un processo riformatore che avrebbe in primo luogo l’effetto di contenere, se non annullare, le spinte egemoniche dei paesi più forti, ponendo le condizioni per la promozione di politiche orientate al benessere sociale e allo sviluppo economico di tutta l’Europa, visto che elettoralmente il Mezzogiorno e la Grecia conterebbero quanto la Baviera e l’Olanda.
La cessione formale di sovranità (in larga parte già avvenuta sul piano sostanziale all’interno delle arene intergovernative) e l’avvio di un processo federativo non rappresentano certo un passaggio semplice e indolore, ma la gravità della situazione sociale ed economica dell’Italia e in particolar modo del Mezzogiorno e della Sicilia, ne rendono drammaticamente indifferibile l’avvio, richiedendo un livello di coraggio e ambizione ben diverso da parte di un ceto politico (nazionale e locale) sfibrato da decenni di personalizzazione e svilimento del valore delle identità collettive, di progressiva rimozione della capacità di elaborare “visioni lunghe”, della consapevolezza della funzione sovraordinata che la politica deve avere rispetto all’economia. Detto altrimenti, di quel professionismo politico tanto vilipeso quanto drammaticamente carente presso la nostra classe dirigente.