Ogni volta che c’è in gioco una posizione di potere, una poltroncina in prima fila, torna l’antimafia a comando. Lampeggia l’avviso in calce alla polemica: attenzione, il mio collega di partito, il mio vicino di coalizione, colui che, fino a ieri, era l’amico prediletto, adesso risulta corrotto e mafioso. Io che vi parlo dal pulpito ho il crisma dell’alfiere della purezza, gli altri sono, nel migliore dei casi, conniventi. Si tratta di un vecchio numero da circo, di una bomba a mano funzionale al mantenimento delle posizioni nelle trincee della politica. I ragionamenti non la disinnescano. Non ci riuscì neanche Sciascia con quel monumento di articolo sui professionisti dell’antimafia (intuizione esatta, con l’esempio sbagliato di Paolo Borsellino, integrazione utile per chiarire, ndr). Ed era Leonardo Sciascia, uno che aveva capito tutto. Eppure lo chiamarono quaquaraquà.
Una antica tradizione di sinistra, l’antimafia-accusa a comando, che va a braccetto con l’altro costume in voga: il massacro dei compagni, piuttosto che degli avversari. Una memoria di coltellate giunta fino ai giorni nostri, dopo avere dribblato anni di mascariamenti. Basta riascoltare – per rendersene conto – Beppe Lumia, al convegno del Megafono, mentre maledice, in odio al ‘consociativismo’: “quella parte del Partito democratico, esso stesso un partito burocratico e clientelare e con tratti anche di affarismo e di corruzione mafiosa”.
Affarismo, corruzione e mafia, le chiavi di volta dell’anatema lumiano alla convention megafonista di Taormina, spese per tracciare il perimetro della scomunica. Buttate lì per distinguere i buoni dai cattivi. Munizioni indispensabili nella difesa del fortino di Rosario Crocetta dall’assalto di “quella parte del Pd” che vede il governatore come fumo negli occhi. Artiglieria antimafiosa.
Lo ha sottolineato, con un giudizio graffiante, anche il segretario regionale dei democratici, Fausto Raciti: “E’ insopportabile l’ipocrisia di chi pretende di rilasciare patenti di moralità a seconda che si contesti o meno il governo della Regione Sicilia”.
L’antimafia a comando questo fa. Distribuisce “la patente”, seguendo il canone dell’amicizia o dell’inimicizia, dell’interesse o del disinteresse. E finisce per sconfessare, con la sua ossessione partigiana, l’antimafia seria che lavora sul campo, perseguendo – se si mantiene equilibrata e rifugge dalla retorica – il traguardo della giustizia.
A margine, sarebbe opportuno rivolgere al senatore Lumia qualche domanda. Se il Pd è un obbrobrio, lo è sempre stato o lo è diventato? E se lo è sempre stato, come era compatibile con la militanza di uno specchiato antimafioso del calibro di Beppe Lumia? Se lo è diventato – poiché la trasformazione non può essere avvenuta in un mese – perché il latore delle accuse non ha denunciato per tempo? In aggiunta, nella damnatio del consociativismo: cosa era il Partito Democratico quando spartiva il potere con Raffaele Lombardo, figura assai diversa – e non c’erano ancora sentenze ad approfondire il solco – dalla sostanza etica e politica di un agglomerato di centrosinistra? Beppe Lumia fu una delle architravi di quel patto. Stava con Raffaele, come ora sta con Saro, senza battere ciglio, sempre nel segno zodiacale dell’antimafia.
Tema affatto nuovo, tradizione di sinistra, consuetudine di mascariamenti, l’antimafia a comando. Tanto che il proconsole renziano in Sicilia, Davide Faraone, innestò una sua personale polemica contro ‘la cosiddetta ‘antimafia 2.0’. Disse Faraone: “Ieri c’erano vantaggi a fingere d’ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi. Il potere fondato sulla lotta alla mafia è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista. Ora, non voglio dire se Sciascia allora avesse ragione o torto, ma sono certo, che quelle riflessioni sono attuali oggi. I 2.0 usano l’antimafia, non soltanto per popolarità e lotta politica, ma per costruire blocchi di potere politico-economici alternativi a quelli esistenti”.
Questo è il dettaglio della rissa di cortile e d’antimafia. Sullo sfondo, si narra la deriva del centrosinistra siciliano, ormai separato dal preambolo della questione morale. Enrico Berlinguer predicò l’urgenza della questione morale, la diversità di chi non accetta compromessi al ribasso che stravolgano l’identità di un cammino, perché mira davvero al rinnovamento. Pio La Torre visse e morì della prassi della questione morale che, in Sicilia, coincide con una schietta etica antimafiosa e si riconosce nella costruzione della legalità di sostanza, non nella sua mascherata.
I successivi detentori del marchio hanno progressivamente ripudiato la via maestra, per praticare la scorciatoia dell’inciucio senza rinnovare alcunché. Hanno contrabbandato l’inganno della rivoluzione, prendendo la questione morale siciliana a paravento. Hanno falsificato l’antimafia, trasformandola in contraffazione, per garantirsi la salvaguardia delle poltroncina. Così, tra macerie e coltellate, si consuma l’ultimo fiato di ‘qualcosa’ che annotava ambizioni di rinascita, sbandierando il pedigree di gloriose battaglie trascorse.
Sotto le bandiere di una volta, uomini e cose hanno cambiato verso, ma nel senso della speranza tradita. Se Raffaele Lombardo fu la quintessenza del compromesso, Rosario Crocetta è l’inveramento di un incubo (ci sono solo due percorsi drammatici e portano entrambi alla devastazione: la sfiducia come atto supremo di suicidio, il sostegno come agonia, lento spegnimento). L’antimafia è la tenda che copre questo circo degli orrori.
Faraone si tranquillizzi, se può, davanti a un simile spettacolo e risolva finalmente il dilemma. Sciascia aveva ragione.