Il ministro Saverio Romano dovrebbe dimettersi per una questione di opportunità. La sua vicenda giudiziaria è nebulosa, formalmente corretta, densa di perplessità nella sostanza. Il rimpallo tra le richieste dell’accusa e la decisione del magistrato lascia più di un dubbio. E andrebbe cancellata quella miope consuetudine che impone alla nostra pignola ipocrisia legalitaria di non discutere ciò che il giudice incastona nelle sue carte. E’ obbligatorio accettare i pronunciamenti. Ma è sempre consigliabile in democrazia la circolazione della parola e dei pareri, senza zone d’ombra, senza silenzi omertosi. Dunque, lo scriviamo a lettere cubitali: ciò che accade a Palermo, per un verso, e a Catania, per un altro, all’interno del palazzi di giustizia, sollecita interrogativi di profondità.
Resta il dato oggettivo che è la vera muraglia invalicabile quando parliamo di un personaggio pubblico e di una carica ufficiale. E’ bene che le sorti di un politico destinato a vivere in compagnia di uno scomodo sospetto e di urticanti dicerie sul suo conto si separino dall’istituzione di cui è inquilino. Lo richiedono l’etica e il senso dello Stato. In questo momento, il problema del governo risiede nella presenza, non nell’assenza del ministro siciliano. E il Presidente della Repubblica aveva previsto tutto.
Conosciamo l’obiezione: così si permette alla giustizia di condizionare la politica del Paese. Se domani Saverio Romano uscisse indenne dall’ordalia che lo aspetta, chi gli ridarebbe il tempo e lo spazio perduto? E’ un rischio forte. Ma nel sentimento superiore di appartenenza alla comunità il decoro di una funzione pesa di più del cammino del singolo. E’ una circostanza spesso terribile che fa parte del gioco complessivo, insieme ai privilegi che ne conseguono. E andrebbe tenuta ben presente da coloro che scelgono di intraprendere la via fortunata e tremenda della rappresentanza democratica.