L'era degli hikikomori | Vita da autorecluso - Live Sicilia

L’era degli hikikomori | Vita da autorecluso

I dato sui "neet" rendono la Sicilia a rischio per questo nuovo modello adolescenziale.

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Una immortale canzone di Gino Paoli favoleggia di come l’amore possa racchiudere dentro una stanza tutto il mondo immaginabile e necessario, e, nel contempo, avere la forza esplosiva che cambia le pareti in bosco, il viola del soffitto nell’azzurro del cielo, la voce dell’armonica nella sonorità di un organo, magnificando l’esperienza individuale e associandola al sentire universale della proiezione verso l’infinito.

La metafora della stanza è oggi rappresentativa di una scelta opposta. Gli hikikomori – la locuzione definitoria è giapponese (da hiku, tirare, e komoru, ritirarsi) perché il fenomeno ha avuto origine in Giappone, ove un report del 2016 registrava già 540.000 casi – si rifiutano di uscire e avere rapporti sociali, e vivono nella loro camera: la tana nella quale mangiare, dormire, giocare con i videogiochi, chattare, ma, soprattutto, nascondersi agli sguardi degli altri, camuffando nel silenzio l’angoscia dell’inadeguatezza. Lo spazio-stanza nel quale reiterare una rassicurante routine quotidiana, appare all’autorecluso l’unico vivibile. Il disagio non è riconosciuto come malattia; spesso è confuso con altre psicopatologie, come la dipendenza da internet, la depressione o l’agorafobia, che sono gli effetti, non la causa, della scelta estrema che il totale ritiro dalla vita sociale rappresenta.

Questo silenzio assordante, come definito nello struggente docufilm di Dorothée Lorang e David Beautru (Hikikomori, a deafening silence, 2013), è diffuso su scala mondiale; in Italia, centoventimila giovani, tra i 14 e i 30 anni, sono “connessi e isolati”, secondo lo spaventoso ossimoro coniato dallo psichiatra Manfred Spitzer, che descrive la solitudine del terzo millennio tanto più dannosa quanto più mascherata da quella che ne è la causa principale: la vastità delle relazioni virtuali che sostituiscono in modo improprio le relazioni umane, atrofizzando la capacità di costruirne di autentiche.

La solitudine si espande come un contagio, e non è esclusivo appannaggio di chi vive da solo. È un’epidemia subdola che, nella fattispecie degli hikikomori, ha svariate cause, da quelle caratteriali e familiari a quelle scolastiche: spesso dietro la paura di uscire e di andare a scuola si celano storie di violenza e bullismo che determinano una visione negativa della società e delle pressioni che esercita. Primi allarmi sono le assenze da scuola, l’inversione del ritmo sonno-veglia, la preferenza per le attività solitarie; gli adolescenti lasciano i contatti sociali diretti, privilegiando quelli mediati dalla rete. Uno schermo sostituisce progressivamente la realtà. E il paradosso è che per l’hikikomori l’utilizzo del web resta poi l’unico aggancio con il mondo relazionale.

Come sottolinea Matteo Lancini nel recentissimo saggio “Il ritiro sociale negli adolescenti” (Marsilio 2019), la solitudine di una generazione peraltro iperconnessa dovrebbe indurre gli adulti a distinguere un uso della rete che favorisce il normale processo di adattamento da un costante sintomo di malessere o dipendenza che potrebbe sfociare in cyberbullismo, sexting, ludopatia e, infine, nel ritiro sociale, la più significativa manifestazione del disagio giovanile.

Ben due milioni di NEET sono terreno di coltura dei potenziali hikikomori nostrani. La quota dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano, difatti, è molto elevata, e tocca il 24,1%. Secondo il rapporto ISTAT “Benessere equo e sostenibile (BES)” del dicembre 2018, i principali indicatori dell’istruzione e della formazione in Italia restano significativamente inferiori rispetto a quelli della media europea. Particolarmente preoccupante è la percentuale (pari al 14%) dei giovani protagonisti – o meglio, vittime – dell’abbandono scolastico, possibile preludio alla scelta di vivere reclusi.

In Sicilia i dati sono più allarmanti: oltre trecentomila giovani hanno abbandonato la scuola senza intraprendere nessun tipo di formazione professionale alternativa. Il 24% dei ragazzi interrompe gli studi alla licenza media inferiore, a fronte della media nazionale di dieci punti inferiore. Un quindicenne su tre non raggiunge le competenze minime in matematica e in lettura. Più di metà dei ragazzini tra i 6 e i 17 anni non legge nemmeno un libro all’anno, non dispone di spazi per fare i compiti a casa, non può permettersi di praticare sport o di frequentare corsi extra scolastici. Come ulteriore aggravante, si registrano gli “scomparsi”: i giovani laureati migrati al Nord, capitale umano e culturale insostituibile. La mancata risposta istituzionale accrescerà un’ulteriore categoria di “scomparsi”, costituita da ragazzi spesso particolarmente intelligenti e sensibili, che vivono una sofferenza connotata da risentimento e disprezzo verso il mondo esterno e che iniziano il percorso di esclusione sociale proprio disertando la scuola. Si crea l’ennesimo circolo vizioso dei nostri tempi.

Già dal 2013, grazie allo psicologo Marco Crepaldi, autore del libro “Hikikomori, i giovani che non escono di casa” (Alpes 2018), agisce l’associazione Hikikomori Italia per informare, riflettere criticamente sul fenomeno, e mettere in contatto genitori, medici, insegnanti per provare a capire e affrontare, senza stigmatizzarlo, un problema a forte rischio di cronicizzazione, destinato ad espandersi nel prossimo futuro, che non può essere ignorato più a lungo né dalla società, né dalle istituzioni.

Internet ha trasformato lo stile della comunicazione umana. In tempo reale possiamo contattare una moltitudine di persone, condividere pensieri e immagini; ma, come afferma Harvey B. Mackay,  “la tecnologia dovrebbe migliorare la vita, non diventare la tua vita”. Invece, sta accadendo proprio questo. Si manifestano nuove sindromi da stress come la FOMO (Fear Of Missing Out), ovvero la paura di restare tagliati fuori da varie forme di divertimento, che provoca l’ansia di restare sempre connessi, o come il “narcisismo digitale”, l’ossessione nella cura della propria immagine online mediante egosurfing, selfie, hashtag. Provando a gestire l’esclusione, gli adolescenti escludono, a loro volta, una realtà che provoca angoscia. Il risarcimento possibile resta un cyberspazio nel quale non essere, ma immaginare se stessi.

Sono i nuovi eremiti? Il loro stile di vita, però, non è caratterizzato dalla meditazione, ma da letargia, incomunicabilità, isolamento, segnali premonitori riconoscibili e che richiederebbero interventi tempestivi, programmati da famiglia, scuola e figure professionali di riferimento. L’autoesclusione è un disagio psichico che non si risolve spontaneamente; richiede affetto, attenzione, impegno, fatica, tolleranza della frustrazione quando, come è noto a tanti genitori, gli sforzi non producono risultati, e si precipita in una solitudine non meno respingente di quella dei propri figli.

Di certo, gli hikikomori sono gli “eremiti sociali” di una contemporaneità esasperatamente competitiva. Il 52° Rapporto Censis dipinge gli italiani sempre più delusi e incattiviti (e l’analisi sociologica è suffragata da numeri e statistiche), affetti da “una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico” che “assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare”. Sono parole forti, volte a scuotere le coscienze. Più l’aggressività diventa feroce, più il ritiro ha la valenza di un suicidio sociale. Ma se la decisione è sparire, vince il nulla.

La forma estrema dell’ autoesclusione è ancora solo un grido d’allarme? O il regno di Danimarca è marcio dalle fondamenta?

Per chi fugge da un mondo che non comprende e dal quale non si sente compreso, non c’è magia che funzioni. Forse, per dare un segno di vitalità positiva da parte del consorzio umano, bisognerebbe rispondere al bisogno d’amore. E questo, al di là di dotte analisi e complicati interventi, resta un concetto semplice, comprensibile a tutti, come ben sapeva John Lennon, da sempre affascinato dal potere degli slogan che uniscono la gente. “All you need is love” non presenta difficoltà interpretative. È un messaggio chiaro; l’amore è tutto quello che serve.

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