I miti di Liggio, Riina e Provenzano| Una mafia fondata sui nipoti - Live Sicilia

I miti di Liggio, Riina e Provenzano| Una mafia fondata sui nipoti

Totò Riina e Bernardo Provenzano

Si evocano i padrini morti o al 41 bis. E dei corleonesi restano le macerie.

PALERMO – Ieri era la mafia dei potenti padrini. Oggi e, forse, domani quella dei loro nipoti. Dal blitz che nei giorni scorsi ha azzerato quel che resta del clan corleonese viene fuori lo spaccato di una mafia che sopravvive nel segno dei vecchi padrini. O meglio, nel mito di Bernardo Provenzano e Totò Riina visto che il primo è morto dopo dieci anni di galera al 41 bis e una lunga malattia, mentre il secondo è sepolto al carcere duro dal 1993. Qualcuno sfida la memoria, evocando la figura di Luciano Liggio. E siccome è trascorso tanto di quel tempo dall’arresto (1974) e dalla morte in carcere (1993) del padrino che diede il via alla saga dei peri ‘ncritati si finisce per fare confusione. Si dà del “nipote di Luciano” a qualcuno che nipote non lo è.

Sulla scena della mafia corleonese i nomi che contano, oggi e forse domani, sono e saranno quelli di Carmelo Gariffo e Giovanni Grizzaffi. Gariffo era tornato operativo dopo la scarcerazione e pochi giorni fa è stato di nuovo arrestato. Su Grizzaffi, invece, convogliano le speranze dei nostalgici della stagione sanguinaria di Totò u curtu. Speranze, appunto, di un possibile ritorno ai fasti del passato di Cosa nostra visto che il nipote di Riina è ancora in carcere.

Prima di ora Gariffo in cella c’era finito nel 2006. Faceva da postino allo zio Bernardo Provenzano, smistava i pizzini e convocava appuntamenti del latitante che si rifugiava a Montagna dei Cavalli. Dopo avere scontato la pena Gariffo ha creduto di potersi riprendere il posto che spetta a chi porta un cognome come il suo. Solo che nel monento della sua scarcerazione il suo principale punto di riferimento, lo zio Binu, era detenuto e non poteva sponsorizzarne il ritorno al potere. Se avesse scalzato il nuovo capomandamento Rosario Lo Bue senza autotizzazione “il primo mio zio – diceva Gariffo – mi avrebbe rotto le gambe lui stesso”. E allora gli toccò temporeggiare, cercando di trovare alleati e sfruttando il malcontento provocato dalla gestione della cassa da parte dei Lo Bue. Attesa segnata da una stagione di ristrettezze economiche. Lui stesso si definitiva “azzerato” tanto che qualcuno gli organizzò una colletta. I suoi propositi di tornare ai fasti, e probabilmente ai soldi, di un tempo sono stati stoppati dal nuovo arresto.

Tra gli interlocutori più assidui della sua parentesi di libertà c’era Antonino Di Marco, custode del campo sportivo di Corleone, pure lui finito in manette nei mesi scorsi. Di Marco era uno dei più scontenti della gestione Lo Bue e non escludeva di voltare le spalle al capo mandamento. Solo che, probabilmente, non aveva ancora deciso su quale cavallo puntare. Se affidarsi al già libero, ma attendista, Gariffo oppure temporeggiare nell’attesa della scarcerazione di Giovanni Grizzaffi, nipote di Riina, che nel 2018 finirà di scontare una lunghissima condanna. “Se ci fosse Totò…”, ripetevano spesso i nostalgici in paese. Una cosa sin d’ora è certa: sulla figura di Grizzaffi si concentreranno le attenzioni future non solo dei mafiosi.

E allora c’è da chiedersi chi raccoglierà le macerie di un clan che fu potentissimo. Forse il “prestigio” dei vecchi padrini, costretti a decenni di carcere duro, ha finito per essere un fardello per le nuove generazioni. “Mischini, sono anziani e malati”, diceva Mariano Marchese di Totò Riina e Bernardo Provenzano. La loro morte era vista come l’avvio di una nuova stagione per Cosa nostra. Un punto e a capo necessario per l’intera organizzazione. Marchese nel parlava con un rampollo con un altro cognome pesante nella vecchia mafia, Pullarà. “L’hai visto?… sta morendo…(sorrideva)… mischino…”, così parlavano di Provenzano. “E se non muoiono tutti e due – aggiungevano – luce non ne vede nessuno… è vero zio Mario?”. Nel “tutti e due”, secondo gli investigatori, veniva incluso anche Riina. “Lo so”, rispondeva Mariano Marchese che tirava in ballo altri cognomi pesanti: “Beh… e beh… non se ne vedono lustro…e niente li frega…ma no loro due soli…ma…tutto u vicinanzo… era sotto a loro… Graviano, Bagarella, questo di Castelvetrano…”. Un chiaro riferimento a Matteo Messina Denaro. Anche Marchese è morto nei mesi scorsi. Era anziano e malato. Non ha fatto in tempo ad assistere alla quarta operazione negli ultimi anni contro quel che resta della mafia corleonese.

 


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