Le polemiche che hanno accompagnato l’ultima settimana, dalle cerimonie di inaugurazione dell’Anno giudiziario all’iscrizione (voluta e non dovuta) nel registro degli indagati della premier, del sottosegretario alla Presidenza del consiglio e dei ministri della Giustizia e dell’Interno, ancora una volta, hanno riecheggiato il sensibile offuscamento, in Italia, del “Senso dello Stato”, inteso come collante della Nazione, alimento delle Istituzioni, ragion d’essere del Sistema Paese.
Si tratta di un deficit di valore certamente non casuale, ma che affonda culturalmente le proprie ragioni, in primo luogo, in una comprensibile forma di reazione intellettuale agli estremismi nazionalistici diffusisi nella prima metà del secolo scorso e, successivamente, nell’eterno conflitto tra politica e giustizia che, da oltre un trentennio, assume periodicamente pericolose polarizzazioni.
Da allora di tempo ne è già passato abbastanza, ma, come sovente accade in Italia, l’emergenza diventa pura normalità, al punto da inconsciamente indurre persino la Magistratura Organizzata ad azioni di protesta “sindacale” anche di tipo politico-intellettuale, deragliando rispetto ai relativi binari istituzionali, previsti proprio dalla Costituzione della Repubblica.
Non intendo, ovviamente, riferirmi alle sacrosante rivendicazioni inerenti risorse economiche ed umane, imprescindibili per l’efficiente funzionamento della giustizia, almeno quanto le necessarie e auspicate riforme. Su questo ed anche sul rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza della giurisdizione i penalisti italiani sono stati e saranno sempre rigorose sentinelle del principio di separazione dei poteri.
Si ritiene, tuttavia, priva di conducenza una protesta fondata nel merito politico giudiziario della produzione legislativa allo studio del Parlamento, secondo le regolari procedure costituzionali.
Tale può definirsi solamente una attività di tipo politico, fuorviante in relazione all’architettura costituzionale che regge l’Italia e disaggregante rispetto a quel “Senso dello Stato” che deve necessariamente unire un popolo.
Se l’Ordine costituzionale dei magistrati, per ampi aspetti tutore della corretta osservanza della legge, può metterne in discussione, ideologicamente e forse anche aggressivamente, i contenuti, addirittura allo stadio del rituale dibattito parlamentare, l’inevitabile disorientamento del cittadino, per altri aspetti chiamato ad osservare la legge proprio dall’Ordine costituzionale dei magistrati, agevola quel processo di disgregazione della collettività, che porta al decadimento culturale, economico e morale di un Paese.
L’Anm, dopo avere “berlusconizzato”, “renzizzato” e “salvinizzato”, ha anche “melonizzato” la propria azione sindacale, preferendo sbandierare la copertina della Carta costituzionale, piuttosto che prendere atto del complessivo significato dei principi ivi enunciati, puntando così sull’immagine piuttosto che sui contenuti, sul mediatico apparire piuttosto che sull’effettivo essere.
La riforma costituzionale, sia chiaro, non prevede affatto la sottoposizione del pubblico minstero al potere esecutivo, ma conferisce effettività al principio di terzietà del giudice, astrattamente indicato nel testo dell’art. 111 della Costituzione, la cui concreta esplicazione presuppone necessariamente la modifica dell’assetto ordinamentale della magistratura.
Sotto altro profilo, la riforma dell’attuale Csm limiterà l’influenza delle correnti dell’Anm rispetto alle nomine, alle valutazioni di professionalità ed ai procedimenti disciplinari, riducendo peraltro i c.d. “poteri impliciti” che hanno attribuito un improprio ruolo politico all’organo di governo autonomo dei Magistrati, come se fosse quasi una “terza camera”.
Si torni, pertanto, ad affrontare e discutere nel merito le questioni che riguardano il funzionamento della nostra democrazia, recuperando la cultura del limite, nel reciproco rispetto di tutte le Istituzioni e nella piena consapevolezza della titolarità del potere legislativo in capo al Parlamento, massima espressione della sovranità popolare.
In linea generale, la Costituzione, come è noto, prevede l’esistenza del “Giudice delle Leggi”; il tentativo di ergersi a categoria di giudici dei progetti di legge è il “non senso della stato”, paradossalmente forse l’anarchia.
Le leggi di riforma della Costituzione prevedono addirittura una procedura rafforzata (c.d. doppia lettura), richiedendo, inoltre, un’ampia maggioranza (c.d. maggioranza qualificata) e, in caso di maggioranza semplice, come pare essere quella che sostiene il disegno di legge pregiudizialmente inviso alla magistratura associata, la parola spetterà al popolo, la cui decisione dovrebbe, prima, essere auspicata da tutti e poi tranquillizzare tutti o, almeno, tutti quelli che hanno il senso dello Stato e la cultura del limite.