“Era impossibile raggiungere Raffaele Lombardo, poiché egli accampava le scuse che nelle segreterie politiche si ipotizzava la presenza di microspie per indagini su mafia e politica, condotte da Ros e Digos”. Parole del capo di cosa nostra Vincenzo Aiello, secondo la ricostruzione del pentito Gaetano D’Aquino interrogato dai Pm del processo Iblis. Esisterebbero due fasi nei presunti rapporti tra i fratelli Lombardo e la mafia catanese. Rapporti tutti da dimostrare.
“Prima delle elezioni regionali Raffaele Lombardo era agganciabile – sostiene D’Aquino- a mezzo dei suoi segretari”. Dopo le elezioni invece “Lombardo interruppe ogni possibilità di contatto con la scusa delle indagini, peraltro spostando anche la sede della sua segreteria dalla via Etnea in alto a via Pola”. Si aggiungerebbe un tassello in più alle intercettazioni dei capimafia durante la nomina dei due magistrati della DDA in giunta. “Ma che spacchio gli ha messo a due della DDA nella Giunta Regionale?”, diceva il boss Vincenzo Aiello, “per farsi delle coperture”, rispondeva l’autonomista santapaoliano Giovanni Barbagallo.
A questo punto dell’interrogatorio D’Aquino racconta che i fratelli Angelo e Raffaele Lombardo, dopo le elezioni si sarebbero comportati in modo diverso con la mafia. “Quando Raffaele venne eletto poi si perse di vista, cioè, per quanto udii da Orazio Privitera, Enzo Aiello e Fabrizio Pappalardo, si allontanò, non mantenendo le promesse che aveva fatto”. Diverso sarebbe il comportamento di Angelo Lombardo: “non si perse mai di vista: su di lui, non sentii mai lamentele poiché rimase in effetti sempre a disposizione dei clan”. Su queste basi, secondo il pentito, Angelo Lombardo sarebbe “legato a tutta la malavita organizzata catanese”.
Ancora episodi che sarebbero avvenuti in campagna elettorale: “Durante le elezioni regionali Giampiero Salvo, iniziò a parlare a me e ad Orazio Privitera, nonché agli altri maggiorenni del gruppo, di un progetto che poteva nascere dentro il porto di Catania, con iniziative quali l’apertura di bar e la costruzione di nuovi pontili; iniziativa all’interno della quale sarebbe stato possibile ottenere per noi delle opportunità di avere concessioni di alcuni servizi”. Questo sarebbe stato possibile “con l’appoggio di politici”, ovvero, secondo D’Aquino, “Raffaele Lombardo. Ciò affermo non per averlo direttamente sentito dal Salvo, ma poiché, avendo fornito gli appoggi elettorali ai Lombardo, era a quella corrente politica che noi facevamo riferimento”.
La mappa dei clan autonomisti. “Gaetano D’Antonio (detto Calimero, ex marito del consigliere provinciale Vanessa D’Arrigo), mi disse che Angelo Lombardo aveva legami con molti esponenti dei clan catanesi, quali Corrado Favara, Rosario Tripodi, esponenti del Laudani, Fabrizio Pappalardo, ciò significa che era ben appoggiato”. D’Aquino dipinge Angelo Lombardo come un politico “ecumenico”, per cosa nostra: “il vantaggio che Angelo Lombardo poteva avere dall’essere appoggiato da molti clan era notevole, nel caso infatti in cui si fosse allontanato da alcuni, avrebbe comunque conservato l’appoggio di altri. Quanto ai clan, potevano ottenere tutto ciò che avessero chiesto, in termini di favori o di infiltrazioni di organi pubblici”.
“Fabrizio Pappalardo del clan Pillera del Borgo -continua D’Aquino- mi disse che Angelo Lombardo era soggetto a “sua disposizione”. In quell’occasione Fabrizio mi disse che il suo parente, che lavorava alla cooperativa presieduta dal Santagati, poteva continuare a fare quello che voleva, non venendo al lavoro e comportandosi come più gli piacesse: in caso di problemi egli avrebbe contattato direttamente Angelo Lombardo ed avrebbe ottenuto quello che voleva”.
Il soccorso dei boss. Ritiene di parlare con cognizione di causa, il mafioso pentito Gaetano D’Aquino quando rievoca il primo momento in cui conobbe Calimero, il “portaborse” di Angelo Lombardo, durante una rissa. “Quando conobbi per la prima volta il D’Antonio, litigai con lui venendo alle mani, subito dopo, si presentò da me tale Melo Riso, insieme a Turi u Curtu, genero del proprietario del bar Epoca, per difendere il D’Antonio. In seguito venni mandato a chiamare da Corrado Favara (boss del clan Pillera-Cappello), con il quale mi incontrai presso il negozio di materassi di Nunzio Di Mauro. Lì Favara mi chiese di evitare ulteriori scontri, poi venne Sebastiano Fichera, sempre a dirmi che il D’Antonio era spaventato per il litigio avuto con me, ma io lo rassicurai”.