Mafia, confisca definitiva per l'imprenditore Di Giovanni - Live Sicilia

Mafia, confisca definitiva per l’imprenditore Di Giovanni

Beni per cento milioni di euro passano allo Stato, c'è anche il villaggio Kartibubbo
LA SENTENZA
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TRAPANI – La prima sezione della Corte di Cassazione, con sentenza di rigetto, ha posto fine al procedimento di prevenzione avviato dalla Direzione Investigativa Antimafia nel 2014 a carico dell’imprenditore Calcedonio Di Giovanni, originario di Monreale, classe 1939. Il valore dei beni definitivamente sottratti alla criminalità organizzata è pari a 100 milioni di euro.

La parte più consistente della confisca, la cui pronuncia di primo grado, da parte dei giudici del Tribunale delle Misure di Prevenzione di Trapani risale al 2016, riguarda il villaggio turistico Kartibubbo, a Campobello di Mazara. La confisca ha riguardato inoltre appartamenti, terreni, conti correnti bancari ed aziende, società anche con sede a San Marino e in Inghilterra. L’imprenditore palermitano, secondo ricorrenti dichiarazioni di collaboratori di giustizia, sarebbe stato portatore di interessi delle cosche mafiose siciliane attraverso artificiosi meccanismi fraudolenti mediante i quali avrebbe avuto accesso a cospicui finanziamenti pubblici nazionali e comunitari coinvolgendo nei propri progetti individui vicini ad un noto latitante mafioso.

Una laurea in Agraria, un posto sicuro presso l’assessorato regionale all’Agricoltura, lasciato di punto in bianco, senza nemmeno una lettera di dimissioni, alla metà degli anni ’70, per buttarsi a capofitto nell’attività imprenditoriale in quella che all’epoca era certamente la terra dei più pericolosi capi mafia della Sicilia occidentale, la provincia di Trapani e l’entroterra di Mazara del Vallo. Lui così più che palermitano diventa un trapanese, un mazarese in particolare, tanto da divenire negli anni ’70 presidente del Mazara Calcio. Questo è il periodo in cui diventa il più degli affezionati amici e complici dei mafiosi mazaresi.

Il profilo giudiziario e professionale di Calcedonio Di Giovanni fanno dello stesso il tipico imprenditore legato alla mafia e alla massoneria. I carichi pendenti lo mostrano quale imprenditore certamente spregiudicato; le sue fortune e la sua parabola imprenditoriale, “esplosa” negli anni settanta del secolo scorso, appaiono indissolubilmente intrecciarsi, in un ferale abbraccio, con i destini delle famiglie mafiose del “mandamento” di Mazara del Vallo, uno dei più attivi dell’intera organizzazione “Cosa nostra”. Quella mazarese è stata tra quelle più attive nel territorio nazionale, legata al clan dei corleonesi e a quelli dei Nuvoletta di Napoli. Mazara è il capolinea dei traffici illeciti di tabacchi, sulla stessa rotta, grazie ai motopesca controllati dal capo mafia Mariano Agate, vengono via via intensificati i traffici di droga e di morfina base da raffinare poi nel cuore della campagna siciliana. Gli introiti si moltiplicano e Di Giovanni si presenta come l’uomo giusto per investire quel denaro nell’edilizia.

Il più importante degli investimenti è quello condotto a Campobello di Mazara dove viene realizzato il villaggio turistico di Kartibubbo. A raccontare questa parte della storia di Calcedonio Di Giovanni è il noto manager siculo-sudafricano Vito Roberto Palazzolo. Fu lui, il faccendiere della mafia siciliana inseguito per anni da un ordine di cattura firmato dall’allora giudice istruttore Giovanni Falcone, a mettere area e progetto nelle mani del Di Giovanni. Per anni, per decenni, è stato considerato uno dei grandi custodi dei segreti di mafia. Vito Roberto Palazzolo, alias Robert Von Palace Kolbatschenko, il cosiddetto «manager della mafia», riciclatore di grosse somme di denaro tra Berna e Città del Capo. Palazzolo è tornato in Italia con le manette ai polsi nel dicembre del 2013, dopo 25 anni trascorsi in quel paradiso dorato che per lui era diventato il Sudafrica, dove faceva da intermediario a grandi mafiosi. Contro di lui trovò una condanna definitiva a nove anni che, come scrisse Giovanni Falcone, fa di Vito Roberto Palazzolo, uno dei più grandi e importanti riciclatori di Cosa Nostra.

Quel villaggio fu costruito con i soldi della mafia, 5 miliardi di vecchie lire. Non solo. Lì dentro, una volta costruito hanno trascorso la latitanza, al mare, tutti i big di Cosa nostra, da Riina a Provenzano, sino a Ciccio e Matteo Messina Denaro, il super capo di Cosa nostra trapanese ricercato dal 1993. Tra le proprietà censite anche quelle appartenenti agli eredi del capo mafia di Mazara, il boss don Mariano Agate. Cosa c’entrano Kartibubbo e Di Giovanni con Palazzolo? C’entrano eccome. Palazzolo fu artefice negli anni ’70, poco più che ventenne, di quel progetto da 5 miliardi di lire, assieme ad una cordata di imprenditori svizzeri, poi cedette a Di Giovanni il progetto e licenza per farlo costruire in nome e per conto di Cosa nostra. Palazzolo raccontò ai giudici di Trapani che lo sentirono durante il procedimento di primo grado per la confisca dei beni a Di Giovanni, che la mafia quel progetto glielo tolse dalle mani. Fu suo nonno a portarlo dall’allora capo mafia di Partinico Nino Geraci che in cambio di 20 milioni lo fece mettere d’accordo con Di Giovanni che lo ricompensò per quel progetto con 400 milioni e una villetta. Palazzolo ha raccontato che fu l’allora sindaco di Campobello di Mazara Antonino Passanante a fare da «compare» nell’affare a Di Giovanni, «si inventò pretesti per farmi fermare i lavori… poi seppi che anche Passanante era mafioso: un suo antenato nel 1909 ammazzò il poliziotto italo americano Joe Petrosino appena giunto a Palermo». Una villetta che però restò poco mano nella sua disponibilità, fu obbligato a cederla a Mariano Agate.

La realizzazione delle opere coinvolge anche interessi della mafia di Castelvetrano, ed in particolare quelli di Filippo Guttadauro, genero e cognato dei Messina Denaro, di don Ciccio e del “padrino” di oggi Matteo, Filippo fratello del noto medico Giuseppe, appena tornato in carcere, il boss in camice bianco che oggi è stato scoperto tenere unita Cosa nostra alla politica.

Gli investimenti che Di Giovanni da quegli anni settanta in poi, passeranno per diverse società finanziarie, fino ad approdare a San Marino e a Londra. I collaboratori di giustizia hanno affermato a chiare lettere che il Di Giovanni era portatore degli interessi delle cosche mafiose siciliane, evidenziando i suoi collegamenti con il commercialista Giuseppe Mandalari. L’esistenza di collegamenti fra mafia massoneria ed affari trasuda da tutti gli atti di questo procedimento nella parte in cui viene in ballo il ruolo degli istituti di credito preposti al controllo dell’ avanzamento dei lavori finanziati. Vennero erogate immense quantità di denaro in assenza totale di controlli e, qualche volta, con la chiara dimostrazione agli atti della assenza dei presupposti per continuare a finanziare le opere proposte dall’imprenditore monrealese.

Negli anni più vicini al primo sequestro che lo colpì nel 2014, si scoprì che attraverso artificiosi meccanismi fraudolenti, Calcedonio Di Giovanni ebbe accesso a rilevantissimi finanziamenti pubblici nazionali e comunitari coinvolgendo nei propri progetti anche interessi della mafia di Castelvetrano, Guttaduaro e i Messina Denaro.

Uomo d’onore Calcedonio Di Giovanni non lo è mai stato, ma i mafiosi lui li ha conosciuti molto bene e con loro non è mai stato a distanza. Mai però nessuna condanna per mafia, ma semmai per truffa, bancarotta fraudolenta, abusi edilizi, anche una condanna per omicidio colposo, per una turista rimasta folgorata mentre faceva la doccia nella sua camera a Kartibubbo. Un imprenditore che riuscì a collegare la mafia con i poteri economici, per favorire grandi riciclaggi e consentire a Cosa nostra di incamerare profitti e beni chiavi in mano.

Al momento dell’originario sequestro, lui possiede in particolare due società, la “Titano Real Estate Limited” di Londra e la “Compagnia del Titano srl” a San Marino. Due casseforti dentro le quali finiscono svariati milioni di euro. Nei suoi progetti quella di costruire un altro villaggio del tutto simile a quello di Kartibubbo. Sempre nel trapanese e a un tiro di schioppo da Mazara, a Petrosino, località Torrazza. Lì sarebbe dovuto nascere il Torrazza Harbour, un’area di 170 mila metri quadrati con un bacino portuale di 50 mila metri quadrati e 30 mila metri quadrati di fabbricati. Un maxi residence, roba da ricchi, 500 posti barca, 8 piscine, centro commerciale, ristorazione, sport vari e spiaggia privata. La concessione edilizia è del 1973. Ma la protesta popolare bloccò l’iniziativa.

Negli anni recenti un altro affare sempre nella stessa località cominciò a prendere forma. Dal Torrazza Harbour al Roof Garden, di un altro imprenditore, Michele Licata. A vendere a quest’ultimo un’area enorme, di 15 ettari, rientrante nella zona umida dei Margi Nespolilla, fu la moglie di Di Giovanni, una compravendita da circa 500 mila euro. Ma anche questo progetto si è presto arenato. Anche Licata come Di Giovanni oltre che a fare i conti con la giustizia ha dovuto fare i conti con la protesta popolare, pronta a tutelare dal cemento una delle più belle piazze naturali del trapanese.


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