Catania, mafia e impresa: i legami svelati dalle microspie - Live Sicilia

Mafia e impresa, l’abbraccio mortale svelato dalle microspie

Come Cosa Nostra cerca di infiltrarsi nel tessuto economico e gli imprenditori di avere un vantaggio dalle intimidazioni
OPERAZIONE AGORÀ
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CATANIA – Gli imprenditori bussano alla porta della mafia, che si mette all’opera: è un abbraccio mortale quello descritto nelle carte dell’inchiesta Agorà, che giovedì scorso ha portato all’arresto di 56 persone per reati che vanno dall’associazione mafiosa allo spaccio all’estorsione. Le intercettazioni effettuate nel garage di Salvatore Rinaldi svelano un intreccio di interessi tra imprenditori e Cosa nostra, che si attiva per fare da recupero crediti, da garante per prestiti e che offre protezione contro i furti, e ne ottiene in cambio la penetrazione nel tessuto economico e credito sociale, una ricostruzione dal basso in cui secondo le ultime ricostruzioni l’organizzazione è impegnata in questo periodo.

La protezione

Il motivo classico per cui un imprenditore si rivolge a Cosa Nostra è per la protezione dai furti. È il caso di quella che nelle carte dell’inchiesta Agorà è definita la “vicenda Sangari”, dal nome degli imprenditori del settore ortofrutticolo che a un certo punto, nel 2019, decidono di rivolgersi a Rinaldi in seguito a tre furti subiti nella loro sede di Caltagirone.

Rinaldi incarica della cosa un uomo della famiglia La Rocca, Salvatore Di Liberto, dicendogli che l’azienda Sangari, che ha anche una sede nella zona industriale di Catania, è “della famiglia”. Di Liberto garantisce di avere già mandato qualcuno per controllare: “Si stanno informando, poi se mi portano risposta me la portano”.

Dopo un mese, però, la faccenda non si è risolta, e si presenta nel garage di Rinaldi Antonino Sebastiano Battaglia, uomo di spicco del gruppo di Villaggio Sant’Agata. Battaglia ha interessi personali nella ditta Sangari: sua madre è la cognata di Antonino Sangari, che ne è il titolare. Ed è per questo che Battaglia è molto scontento della scarsa incisività di Di Liberto nel seguire la vicenda dei furti: “Ma magari che lui non gli dava risposta però ci andava da questi cristiani: ‘cosa è successo? Cosa non è successo?’ … si prendeva tutte le documentazioni, tutte le telecamere e si informava. Ora vuol dire che nemmeno se l’è sbrigata perché nemmeno c’è andato? Proprio, ci ha trattato come la munnizza! … voglio dire, non lo sanno che Sangari è il nostro?”

Diversi altri uomini si attivano poi per risolvere la questione. Come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, la vicenda dimostra “quanto significative e risalenti nel tempo fossero le relazioni tra la famiglia La Rocca e quella catanese e l’alleanza con il clan Nardo: tutti gli interlocutori non esitano, a fronte della inerzia di Di Liberto, ad attivarsi nel rispetto di quegli obblighi sorti all’epoca in cui responsabile della famiglia La Rocca era Turi Seminara

Il “recupero crediti”

L’altro settore in cui imprenditori e Cosa nostra si scambiano favori è quello del recupero dei crediti, sia per ottenere dei soldi che per bloccare o rallentare delle richieste di risarcimento. Nell’inchiesta Agorà sono descritte due vicende di questo tipo. La prima riguarda un imprenditore del settore turistico che ha ricevuto un’ingiunzione di pagamento per 57 mila euro da parte di un’azienda di movimento terra. Di questa ingiunzione si parla, nel garage di Rinaldi, fin dal 2018, perché uomini della famiglia di Paternò si sarebbero attivati per farla ritirare.

Poco più avanti, a interessarsi della questione è Gabriele Santapaola, dei Santapaola Ercolano, che dice a Rinaldi che quella dei 57 mila euro è una questione “della famiglia”. Non solo perché parte dei soldi, se si fosse riusciuti a bloccare l’ingiunzione, sarebbe finita nelle tasche dei boss mafiosi; ma perché l’imprenditore “aiutato” stava per ricevere un finanziamento da 400 mila euro dalla Regione per la propria attività turistica, e aveva promesso di coinvolgere nei lavori le imprese che ruotavano intorno al clan dei Santapaola-Ercolano. Dunque l’affare era conveniente per la cosca soprattutto per infiltrarsi nel tessuto economico.

La seconda vicenda che vede Cosa Nostra come intermediario in una faccenda di debiti che riguarda un ristorante a Capo Mulini, dato dal proprietario in gestione. Dopo un’ispezione della Guardia di Finanza al ristorante, il proprietario scopre che il gestore aveva preso parecchia merce a credito dai fornitori, facendo il suo nome, e provando a intascare alcuni assegni che il gestore gli aveva firmato come garanzia, scopre che erano scoperti.

Il proprietario a questo punto si rivolge a un uomo della mafia per riavere i soldi. Ma anche il gestore ha il suo uomo di riferimento, e inizia una partita a scacchi in cui uomini delle famiglie della Civita, dei Laudani e di Villaggio Sant’Agata cercano di fare valere il “diritto” di ciascun debitore. La vicenda va avanti con lunghe trattative, registrate nel garage di Rinaldi che fa da perno di tutte le discussioni e le relazioni, fino a che al gestore non viene intimato di lasciare la sua auto, come garanzia per il risarcimento.


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