Mafia e 41 bis, viaggio fra i boss detenuti al carcere duro

Libri, melanzane e farina: i boss al 41 bis, tra regole e vessazioni

Viaggio nelle carceri che ospitano i capimafia più pericolosi

PALERMIO – L’ultimo caso ha riguardato il lievito e la farina vietati al boss stragista Pietro Rampulla detenuto al 41 bis. Non tutte le regole sono uguali. Ci sono delle variazioni sul tema delle restrizioni previste dal protocollo del carcere duro.

Alcune lasciano perplessi, hanno il sapore amaro della vessazione. Va detto, anche a prezzo di essere tacciati di parteggiare per il diavolo. L’obiettivo è impedire i contatti fra i boss detenuti e il mondo esterno, recidere la catena di comando per i capimafia più pericolosi e carismatici. Obiettivo sacrosanto, oltre che auspicabile.

Scorri l’elenco dei ricorsi e ci si scontra con l’illogicità di regole che variano di carcere in carcere. Niente lievito e farina, vietato leggere nuove edizioni di libri sulla mafia, vietato friggere melanzane, sì alle patate al forno dall’esterno ma niente pollo, limite di tre assorbenti al giorno per le donne. Francamente risulta difficile capire cosa c’entri tutto ciò con la necessità di isolare i potenti padrini.

Secondo i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria aggiornati al 4 aprile 2024, i detenuti al 41 bis sono 721, di cui 12 donne. A contribuire alla statistica ci sono 235 siciliani.

L’applicazione dura 4 anni, poi prorogati di biennio in biennio. Ogni tanto qualcuno fa ricorso, ma senza troppe speranze. La risposta si ripete: non si sono dissociati e possono sempre riallacciare i rapporti.

La cronaca, d’altra parte, conferma che la rieducazione resta un miraggio. I boss finiscono di scontare la pena e tornano ad occupare i posti di comando.

Fino a pochi mesi fa c’era un detenuto in più al carcere duro. Matteo Messina Denaro era detenuto a L’Aquila, nel penitenziario “Le Costarelle”. Un enorme blocco di cemento in mezzo al nulla, costruito negli anni Ottanta, quando in Italia governava il pentapartito, ed entrato in funzione nel 1993.

Regole ferree, gestione rigida. L’ora d’aria si trascorre in spazio di 4 metri per 5, muri alti e una rete metallica. All’inizio degli anni duemila furono gli stessi agenti penitenziari a scioperare per le difficili condizioni di vita.

A L’Aquila sono detenuti Filippo Graviano di Brancaccio, Gianni Nicchi, il picciuttedu cresciuto sotto l’ala protettiva del boss Nino Rotolo, Sandro Lo Piccolo, ergastolano della potente famiglia palermitana di San Lorenzo, l’agrigentino Gerlandino Messina e il gelese Crocifisso Rinzivillo.

Altre sezione per il carcere duro ci sono nel carcere di Opera che prende il nome dal Comune ad una manciata di chilometri da Milano. Il penitenziario, costruito negli anni ottanta, con i suoi mille e quattrocento detenuti, è uno dei più grandi d’Europa.

Nella struttura milanese prima c’era Totò Riina, ora ci sono il boss dell’Uditore Nino Rotolo, Ignazio Ribisi di Palma di Montechiaro, il catanese Nitto Santapaola, Vito Vitale di Partinico, il trapanese Vincenzo Virga, i palermitani Calogero Lo Piccolo, ultimo componente della famiglia a finire in carcere, Giuseppe Graviano di Brancaccio e l’anziano Pippo Calò. Molti sono condannati al fine pena mai e ci resteranno fino all’ultimo respiro.

A loro è destinata un’area riservata, laddove c’era la sezione femminile. Una palazzina di due piani. Nel penitenziario c’è un’infermeria collegata telematicamente con l’ospedale San Raffaele di Milano.

Se si sconta anche la pena accessoria dell’isolamento in cella si sta da soli, si può guardare la tv e leggere i giornali (non quelli siciliani), e da soli si passeggia all’ora d’aria in un cortile poco più grande di una cella, con il tetto sbarrato dalle inferriate. Avanti e indietro all’interno di una gabbia.

Più lungo è, invece, il tragitto che conduce fino alla sala colloqui. È qui che incontrano parenti e avvocati. All’ingresso della struttura c’è una guardiola, a vigilare gli agenti del Gom, il gruppo operativo mobile che vigila sui detenuti al 41 bis.

Si deve lasciare tutto all’ingresso – chiavi, telefoni, borse, documenti – prima di superare il metal detector. Poi, si percorre un corridoio esterno fino alla palazzina di due piani, che si erge alle spalle dello spaccio.

Il secondo metal detector segna l’arrivo nella sala colloqui. La stanza è senza finestre. Gelida e illuminata da un neon. Ci sono due sgabelli in cemento armato. Un bancone di marmo. E il muro di vetro, al centro del quale c’è un piccolo sportello di vetri che si are solo durante i colloqui con l’avvocato. Resta chiuso quando dall’altra parte ci sono i familiari.

I colloqui degli avvocati possono avere cadenza settimanale. Una o due volte al mese per i familiari. Mai più di un’ora. Il quadro delle limitazioni è ancora lungo: è ammessa una telefonata al mese solo con familiari stretti.

Per ricevere la chiamata mogli e figli dei detenuti devono recarsi al carcere della propria città. Tutta la corrispondenza del detenuto viene controllata: buste e pacchi in entrata vengono aperti ad eccezione di quelli provenienti dai parlamentari o da altre autorità che hanno competenza in materia di giustizia.

Le lettere in uscita devono essere consegnate aperte alle autorità carcerarie. Alcune missive possono anche non essere consegnate. È successo a Giuseppe Graviano. Alcune frasi sono stati ritenute “ambigue e prive di attinenza rispetto alla restante parte del testo”. Altre in entrata avevano “riferimenti a terze persone” e “la documentazione allegata appariva di dubbia finalità“.

Ed ancora: la lista dei prodotti alimentari che il detenuto può chiedere di acquistare è molto ristretta e non c’è la possibilità di cucinare all’interno della cella. Unica deroga, in alcuni casi, è la disponibilità di un fornellino per scaldare i cibi. In cella niente libri con copertina rigida e bottiglie. Si può ricevere dall’esterno solo un pacco al mese per un massimo di dieci chili.

E niente lievito e farina, vietati al boss stragista Rampulla.


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