CATANIA- Scommesse, slot-machine, droga ma anche regali e rituali antichi. Nel racconto del collaboratore di giustizia Francesco Franzese, l’ex reggente di Cosa nostra a Partanna-Mondello, c’è un pezzo della storia della mafia siciliana. Quella del dopo Provenzano in cui emerse il progetto in grande stile di Sandro e Salvatore Lo Piccolo: riorganizzare la cupola mafiosa che fu degli storici padrini e fare della Sicilia il “modello” portato avanti dal capo dei capi, Totò Riina. Niente più inabissamento ma affiliazioni e continui summit con i capi sparsi per tutta l’isola.
Franzese venne arrestato da latitante il 2 agosto 2007 in una villetta di Palermo. Il suo contributo alla magistratura è stato decisivo per arrestare il 6 novembre 2007 a Giardinello (nel palermitano) proprio Sandro e Salvatore Lo Piccolo, gli eredi di “Binnu” ma anche nell’ambito del processo all’ex “re dei supermercati” Sebastiano Scuto in relazione alla sua espansione imprenditoriale nel territorio palermitano.
I vertici a cui prese parte il collaboratore avvenivano tutti in dei sobborghi di Palermo, appuntamenti organizzati appositamente da una fitta rete di fiancheggiatori nei pressi di Cinisi, Terrasini, Villa Grazia di Carini e Giardinello. Franzese rivela nello specifico di due incontri che si sarebbero tenuti agli inizi del 2007 tra i componenti di Cosa nostra delle due principali città siciliane, Palermo e Catania. Allo stesso tavolo i Lo Piccolo stavo riuscendo a riformare la cupola di Cosa nostra. “Da Catania – spiega Franzese – arrivati in autoambulanza, per sfuggire credo alla sorveglianza speciale, c’erano Angelo Santapaola, Nicola Sedici e un altro che non riesco a ricordare”.
Il ruolo che il cugino di Nitto era riuscito a ritagliarsi era quello di vero e proprio capo della mafia ai piedi dell’Etna. A chiarire la sua posizione non ci sono soltanto le verità processuali e i racconti di numerosi collaboratori ma anche dei piccoli gesti figli di una ritualità antica, “Lo Piccolo lo fece sedere a capotavola ma lui non voleva ma Salvatore Lo Piccolo gli disse che era giusto così perché in quel momento rappresentava tutta Catania e doveva essere rappresentato con gli onori di questa”. I commensali mafiosi non parlavano solo di appalti ma anche di regali, come un cavallo e “un arma micidiale” che Santapaola avrebbe donato ai Lo Piccolo in segno di riconoscimento. Il vero nodo però erano gli affari sull’asse Catania-Palermo: “C’erano ditte palermitane che lavoravano a Catania e catanesi che lavorano nella discarica di Bellolampo e nei pressi”.
Franzese nel suo capillare racconto rilasciato agli inquirenti nel 2008, spiega anche il livello degli affari che univano i Lo Piccolo con Angelo Santapola. Si passava da quello basso “riguardante i videopoker abusivi e il totonero” fino a quello alto “si parlava di slot della rete legale in cui c’era comunque la mafia, si parlava dei Lo Piccolo come gestori dei punti SNAI di cui avevano la licenza acquisita da un avvocato di Roma che aveva degli agganci … per esempio era riuscito ad averne 20 e poi li distribuiva”.
Un progetto ambizioso legato al mercato ludico che prevedeva la costituzione di una sorta di “monopolio della mafia” parallelo alla rete legale gestita dallo Stato. In un secondo incontro, svoltosi a “Passo di Rigano”, quartiere nella zona centrale di Palermo, oltre agli affari Franzese racconta dei “soggiorni” che alcuni elementi della mafia palermitana, come il boss Andrea Adamo ex capomandamento di Brancaccio poi arresto insieme ai Lo Piccolo, avrebbero trascorso in provincia di Catania. “Aveva passato un periodo in un albergo di lusso nei pressi di Acireale , trattato come un re, c’erano piscine e un centro benessere”.
Nei racconti di Angelo Santapaola, Franzese percepisce però anche tutti i contrasti che Cosa nostra catanese viveva in quegli anni tra il 2006 e il 2007, quando si riorganizzano i ruoli tra nuovi reggenti e capi quartieri, in un periodo bagnato dal sangue e culminato proprio con l’omicidio del 26 settembre 2007 di Santapaola e Sedici, motivo per cui è in corso un processo scaturito dall’indagine “Iblis” del Ros dei Carabinieri.
Franzese nel suo interrogatorio descrive anche il cambio di strategia dopo la stagione stragista, quello della cosiddetta sommersione, e per farlo usa una classica espressione dialettale siciliana: “dicevamo calati junco che passa alla china”. Un proverbio, analizzato anche da Leonardo Sciascia, per indicare come la mafia nei momenti di difficoltà si comporti come il giunco, la pianta acquatica di tipo cespuglioso che nei periodi di piena “abbassa la testa” per poi rialzarla prepotentemente dopo.