"Non usate il nome di mio padre"| Borsellino onlus fuori dal processo - Live Sicilia

“Non usate il nome di mio padre”| Borsellino onlus fuori dal processo

Il caso sollevato dal figlio del giudice ucciso dalla mafia ripropone il tema del proliferare delle parti civili.

PALERMO – La diffida di Manfredi Borsellino a usare il nome del padre non li aveva scoraggiati. Ieri si sono presentati di nuovo in aula. Alla fine c’è voluta una richiesta del pubblico ministero Sergio Demontis per tagliarli fuori dal processo.

Il presidente della Corte d’assise, Alfredo Montalto, ha estromesso l’”associazione antimafia e antiracket Paolo Borsellino onlus di Marsala”. Non ha alcun titolo o interesse, neppure geografico, a costituirsi parte civile al processo sull’omicidio di Mirko Sciacchitano, un ragazzo massacrato per le strade del rione Santa Maria del Gesù, a Palermo. Un delitto che sarebbe stato organizzato e commesso dai presunti vecchi e nuovi boss del mandamento mafioso palermitano. Alla richiesta del pm si sono associati anche i legali delle difese che già in fase di udienza preliminare, per voce dell’avvocato Salvatore Petronio, avevano sollevato dubbi sulla costituzione.

Il figlio del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio, che per mestiere guida il commissariato di Cefalù, ha sempre centellinato le sue esternazioni pubbliche. Difficile, se non impossibile, strappargli una dichiarazione. Eppure un paio di mesi fa ha sentito l’esigenza di fare sapere che “solo ora ho appreso dell’esistenza dell’associazione Paolo Borsellino onlus. Diffido pubblicamente i suoi promotori e fondatori, persone peraltro a me e alle mie sorelle sconosciute, dal continuare a utilizzare indebitamente il nome di nostro padre. Non abbiamo mai dato alcuna liberatoria”. L’associazione è stata costituita qualche anno fa dall’avvocato penalista Giuseppe Gandolfo, con un passato di collaborazione con Libera. Un’associazione, volendo usare le parole del vice questore Borsellino, “particolarmente impegnata sul fronte delle costituzioni di parte civile nei processi contro la criminalità organizzata”.

Parole che andavano dritto al cuore della questione. Si viene riconosciuti parte civile in un processo quando c’è la certezza di avere subito un danno dal reato contestato agli imputati. E si diventa attori del processo con la possibilità di entrare in contraddittorio con il giudice, il pubblico ministero e il difensore dell’imputato. Significa portare prove e citare testimoni, nominare consulenti tecnici, chiedere il sequestro conservativo dei beni e, in ultima istanza, impugnare le sentenze. Insomma, un ruolo delicato che va ben oltre la possibilità di chiedere il risarcimento del danno.

Ed invece troppo spesso, in questi anni e in tutti i Tribunali siciliani, si è assistito allo strumentale proliferare delle parti civili. I processi si sono popolati di comparse che alzano la mano, si fanno registrare dai cancellieri e si associano alle richieste altrui. L’iscrizione alla grande famiglia delll’antimafia serve solo per le parcelle. Certo le cose sono cambiate. Un tempo importanti studi legali incassavano fino a tre milioni di euro all’anno, ad esempio, per rappresentare la Regione, anche quella guidata dall’ex governatore Totò Cuffaro, nei processi per mafia. Un paradosso tutto siciliano che faceva comodo a tutti. Oggi si devono accontentare di cifre molto più basse qualora riescano a superare il vaglio dei giudici, di certo più rigido rispetto al passato. “Signor giudice, non ci resta che aspettare la costituzione dei boy scout”, dissero alcuni avvocati nell’affollata aula in cui si processava la mafia di San Lorenzo. Era stata l’associazione Addiopizzo, presenza costante nei Tribunali, a scagliarsi contro il proliferare “di carovane di associazioni e organizzazioni che sgomitano”.

Le Corti hanno iniziato a mostrare maggiore sensibilità rispetto al fenomeno i cui numeri, però, restano importanti. E così la cronaca ha registrato esempi di esclusioni eccellenti. Come quella di Salvatore Borsellino al processo sulla Trattativa. Ed è proprio nella veste di parte civile che un paio di giorni fa il fratello del giudice assassinato dalla mafia ha potuto togliersi un paio di sassolini dalle scarpe. Facevano ancora male, nonostante fossero passati due anni. Dopo avere ascoltato la lunghissima arringa del suo legale, l’avvocato Fabio Repici – lo stesso che provato a costituirsi altrove – innanzitutto se l’è presa con i pm assenti all’udienza del processo Borsellino quater. Nessuna riconoscenza nei confronti di coloro che hanno smontato la vergogna delle inchieste costruite sulle bugie dei finti pentiti. “Nessuno ha ritenuto di dovere presenziare all’udienza”, ha scritto Borsellino che non è stato tenero neppure con l’unico rappresentante dell’accusa presente – Stefano Luciani – colpevole, a suo dire, di non avere neppure incrociato il suo sguardo per un saluto.

Per Borsellino si è trattato di un gesto deliberato, figlio della “fatwa” lanciata contro di lui da Nico Gozzo e Sergio Lari. Il primo oggi fa il sostituto procuratore generale a Palermo, mentre il secondo è il procuratore generale di Caltanissetta. Sono stati i due magistrati che hanno riaperto le indagini sulla strage di via D’Amelio. Due anni fa, però, criticarono l’abbraccio fra Salvatore Borsellino e Massimo Ciancimino alla commemorazione dell’eccidio, vedendo in quell’immagine il simbolo di un’antimafia urlata che dimenticava le vere icone della legalità per rimpiazzarle con personaggi dalla discutibile credibilità processuale. Un’antimafia che deborda, con movimenti e associazioni pronti a salire sulla giostra delle parti civili.

 


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