Marco Betta: "Da ragazzo stavo per morire, ora vado al Massimo e poi..."

Marco Betta: “Da ragazzo stavo per morire, ora vado al Massimo e poi…”

Il sovrintendente a cuore aperto. Tutto ebbe inizio con i Pink Floyd

PALERMO- “Come? Partiamo subito dall’incidente? Allora è una intervista soprattutto su di me?”.

L’uomo che, ai ‘Giardini del Massimo’, in una breve pausa di lavoro dall’incarico di sovrintendente del Teatro Massimo, consuma un filetto di pesce panato, ha cinquantanove anni che avrebbero potuto non essere mai compiuti. Da ragazzo fu coinvolto in uno scontro spaventoso: “Di cui non mi ricordo nulla, mi hanno raccontato tutto, quando sono uscito dal coma”.

Il fantasma di quel dolore aleggia, in forma di tenebrosa memoria, come la statua del Commendatore che si manifesta a Don Giovanni. Ma viene scacciato con un sorriso. Marco Betta ha un modo di sorridere musicale e accade più volte, durante l’intervista che riguarda lui e il resto, nel battere e levare dell’istituzione culturale più prestigiosa della città. Una roccaforte di prestigio concreto che offre a Palermo occasioni di crescita e successo. Accanto, in ascolto allo stesso tavolo, Giovannella Brancato, architrave della comunicazione.

La scadenza del mandato del sovrintendente rintoccherà a luglio del 2024. Eppure, questo, per quanto sembri bizzarro a filo di cronaca, è appena un dettaglio in una rete di emozioni e pensieri molto più ampi. Si vive una giornata normalmente particolare, dietro le quinte del Teatro, fra un appuntamento con il sindaco, le prove per la serata in onore di Maria Callas e l’orchestra degli eventi da mandare avanti. Andamento? Allegro con brio (e qualche apprensione).

Partiamo, dunque, dall’incidente e dalla sua vita in bilico, sovrintendente Betta?
“Un buco nero. Ho labili ombre conservate, come il risveglio in ospedale, e le cose successivamente narrate. Io che scendo dalla macchina e poi… Avevo diciassette anni, l’anno della maturità, una serata in pizzeria…. Rimasi in coma per giorni. Ho ancora una cicatrice. Mi considero un non morto”.

Qual è il suo primo frammento legato alla musica?
“Ero un bambino piccolissimo, era Natale. C’era, nel giradischi, la famosa favola del cantafiabe. Un percorso necessario per i bambini di allora”.

A mille ce n’è..
“Ecco, una storia dei fratelli Grimm, mi pare, e risuonava una melodia natalizia. Qualcosa che oggi mi dà struggimento, ma anche il senso di una profonda bellezza”.

Come ha incontrato la musica?
“Quando i miei zii mi regalarono la chitarra. Non avevo più di tredici anni”.

Ma lei non è, oltre che un compositore di fama, un virtuoso del pianoforte?
“No, virtuoso no. Il pianoforte è per i compositori uno strumento di lettura e di creazione al tempo stesso, prima che di interpretazione. Ma è vero che la chitarra fu il mio primo strumento. Poi venne il resto. La musica è un linguaggio e un non linguaggio, cominciai a impararlo allora. Non è traducibile e trasmette emozioni. Mi riferisco specialmente alla composizione. La musica è l’idioma delicato e potente dei timidi”.

Lei si considera un ribelle della partitura o un ortodosso?
“Se ribelle significa seguire le proprie inclinazioni, forse, sì. Sa qual è la ribellione più semplice? Essere sé stessi. Nella musica è fondamentale, meglio riuscirci pure nella vita”.

Solo quella chitarra ebbe in dono?
“Mi regalarono pure tanti dischi, gli zii. Mio padre ascoltava musica classica e jazz, la sua collezione era interminabile. Io esordii, comprando un disco per me fondamentale”.

Quale?
Ummagamma dei Pink Floyd, una pietra miliare. Ero onnivoro. Nella musica classica ci sono tre grandi autori che mi hanno scatenato trasalimenti fortissimi: Bach, Mozart e Mahler”.

Ora titoliamo, per deduzione: il sovrintendente Betta pensa che Beethoven è scarso e che a scrivere sinfonie non era cosa…
“Nooo (ride, ndr), Beethoven è il cervello del mondo e lo amo moltissimo, ovviamente. Nell’opera amo specialmente Bellini, Verdi e Puccini”.

Puccini? La Turandot? Nessun doooormaaaa…
“Sicuramente e poi mi piace moltissimo Il Tabarro”.

Titolo alternativo. Vado al Massimo e ci resto.
“Passiamolo come mera battuta”.

Come diventa musicista?
“Cominciai a studiare chitarra in Conservatorio e lì ebbi la fortuna di incontrare il grandissimo Eliodoro Sollima, perché ero interessato alla composizione. Lui mi prese nella sua classe e scattò l’amore per l’arte. Devo tutto a lui, un musicista dalle vibrazioni uniche, una persona speciale”.

Qual è il rapporto di Palermo con la musica?
“Palermo ha una storia importantissima nella musica classica e contemporanea. Abbiamo avuto qui Stockhausen, Sciarrino e tanti altri, per non parlare di esecutori di altissimo livello. Questa città è nata sull’accoglienza di frammenti diversi ed è sinfonica, perfino nella sua architettura. Penso al silenzio immenso della Cappella Palatina”.

Cosa sono, per lei, il bello e il brutto del lavoro di sovrintendente?
“Il mio lavoro va preso così com’è, in tutti i suoi aspetti”.

Vale per i giornalisti, per i metalmeccanici e per…
“Certo, ma dipende tutto dalla prospettiva. Io sono fortunato perché ho sempre la parte bella con me. La creatività e la visione devono convivere, come l’emergenza e la progettazione. Devi essere velocissimo e lento, per trovare una sintesi. Può essere un po’ stancante unire isole così lontane. Sì, può diventare logorante. Ma si vive un sogno”.

Troviamo un’immagine?
“Bisogna avvicinare il futuro e poi prendere qualcosa che rimane indietro e portarlo in linea, al livello del battito cardiaco del teatro. Io sono un compositore, uno che traduce in musica i flussi della vita, conosco le burrasche e le radure luminose. So che esistono e che si alternano”.

L’ho ascoltata, senza volerlo, mentre parlava al telefono con sua madre, Adriana. Quello è un flusso luminoso.
“Sì, con la tenerezza di esserci e di ritrovarsi. Anche mio padre, Natale, è luce, nella memoria e nell’affetto. Come tutti coloro che si amano e che non possono perdersi”.

Il filetto di pesce è ancora lì. Le parole hanno preso la scena. Intorno, batte il cuore del Teatro Massimo, svelato da un rapido sguardo esterno. Tanti si fermano per scattare un selfie davanti alla scalinata. Nessuno distoglie gli occhi, come se fosse ipnotizzato. Una ragazza canta Lucio Dalla, in piazza. La sua voce che intona ‘La sera dei miracoli’ arriva ovunque. La musica del Teatro risponde in silenzio con il suo movimento. Adagio un poco mosso.

Cosa le dà gioia?
“I concerti, quando i nostri interpreti cantano e i musicisti suonano in modo meraviglioso. Il sudore soddisfatto di chi monta le scene. I sorrisi in sartoria. I bambini che rimangono incantati, venendo qui con le scuole… Si combattono tante battaglie soltanto per questo”.

Perdoni la chiosa brutale: lei si sente un sovrintendente con la valigia in mano?
“La fine di un mandato, con tutte le implicazioni possibili, tra restare e andare via, è una mera constatazione temporale. Il futuro non è un limite. Quello che conta è occuparsi oggi di ciò che è necessario fare adesso. Se pensassi al futuro come limite, non lavorerei bene. Per me non è importante quando scadrà il mio contratto, ma come vivo e come lavoro ora”.

Va al Massimo e ci resta?
“Mangiamo, il pesce si fredda”.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI