PALERMO – Sono iniziate con un duro attacco al “processo mediatico” a cui sarebbe stato sottoposto, le dichiarazioni spontanee del generale dei carabinieri Mario Mori, imputato di favoreggiamento aggravato assieme al colonnello Mauro Obinu, davanti alla quarta sezione del Tribunale di Palermo. Mori ha parlato di un processo influenzato “sia dai continui giudizi ed esternazioni della associazioni antimafia, sia dai politici, sia soprattutto dai magistrati titolari del procedimento Nino Di Matteo e Antonio Ingroia che si sarebbero dovuti astenere dalle dichiarazioni su queste vicende sui giornali e in tv, come hanno del resto indicato alcuni loro colleghi”.
Poi il generale ha ricordato, dettagliatamente, l’episodio del fallito blitz per la cattura del boss Bernardo Provenzano a Mezzojuso (Palermo) nel 1995. Il processo ha infatti origine nelle dichiarazioni dell’ex colonnello Michele Riccio, che grazie al confidente mafioso Luigi Ilardo, avrebbe avuto delle indicazioni sul covo del latitante. Secondo Riccio, Mori, il 31 ottobre 1995, bloccò l’arresto di Provenzano che sarebbe stato possibile. “La mia conoscenza con Riccio – ha ribadito – risale agli anni Settanta, i miei rapporti con il colonnello, seppur sempre corretti, sono stati circoscritti all’ambito professionale. Ci separava un carattere diverso ma anche un differente modo di intendere la professione più verso il coordinamento la mia, più individualistica la sua”.
“Ciancimino, depistaggio spericolato”
“Massimo Ciancimino, in uno spericolato tentativo di ricostruzione dei fatti, volto esclusivamente alla propria tutela, è stato anche accusato della detenzione in concorso di un rilevante quantitativo di esplosivo. La vicenda, oggetto di un diverso procedimento penale, è la conferma, se ve ne fosse stato ancora bisogno, del livello di aberrazione raggiunto dal soggetto, capace persino di mettere in pericolo l’incolumità della sua famiglia e di altre persone innocenti pur di manipolare a suo favore la realtà che lo riguardava”. Così il generale Mario Mori, durante le dichiarazioni spontanee nel processo in cui è imputato per favoreggiamento aggravato, ha stigmatizzato il comportamento di Massimo Ciancimino, secondo il quale Mori avrebbe fatto da intermediatore nella trattativa. “Peraltro, è lo stesso Massimo Ciancimino – prosegue – ad ammettere le sue falsificazioni. Infatti, il 30 aprile 2011, in un colloquio in carcere con la moglie, dice di avere falsificato qualche documento da lui consegnato ai magistrati. Oltre a ciò, sostiene anche di non conoscere, ma solo di avere visto, l’oramai fantomatico ‘signor Franco’, venendo infine sollecitato dalla moglie a dire qualcosa in più per ottenere la scarcerazione”.
“Nessuna trattativa”
“Che io sappia, non c’é stata alcuna trattativa”. Il generale Mario Mori ribadisce la sua innocenza nelle dichiarazioni spontanee davanti alla quarta sezione del Tribunale che lo processa per favoreggiamento aggravato. “Ho dimostrato – ha detto – che non c’é stata alcuna iniziativa, nelle mie attività, che mirasse a realizzare aspetti finalizzati a quello scopo. Non sono a conoscenza di intese o accordi che possano esserci stati in merito, per scelte di altri appartenenti alle istituzioni, perché se ne fossi stato informato, a suo tempo ne avrei fatto denuncia, così come mi competeva”. Mori ha ricordato che “l’unico, chiaro indirizzo di natura politico-amministrativa che possa apparire come una concessione verso Cosa nostra di cui ho conoscenza è stato quello, operato dal ministero della Giustizia nel corso dell’autunno del 1993, e proseguito poi nei mesi seguenti, della riduzione del numero dei detenuti sottoposti al 41 bis. Sono dell’avviso che l’operazione rientra ampiamente tra le decisioni che la classe dirigente responsabile di un Paese possa assumere e di cui debba eventualmente rispondere, ma in sede politica. E questo anche se l’iniziativa, da me e da tutti i responsabili degli organismi delle forze di polizia all’epoca, fosse ritenuta inopportuna e controproducente”. Mori è certo che “l’attenuazione del regime carcerario non ha sortito un alcun effetto sulla cessazione delle stragi di mafia. A mio avviso, la ferocia e l’ottusa determinazione di Salvatore Riina prima, e di Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano poi, non si sarebbero certo fermate per la modesta concessione rappresentata dalla promessa di ipotetiche migliori condizioni carcerarie dispensate ad uno sparuto gruppo di uomini d’onore di secondo e terzo piano che, quindi, non li riguardava”. Cosa dimostrata, secondo il generale, dall’organizzazione dell’attentato allo stadio Olimpico di Roma.