PALERMO – Franco Mineo “rappresentava, per certi versi, il paradigma ideale di insospettabile prestanome funzionale agli interessi della consorteria mafiosa”. Sono parole durissime quelle con cui i giudici della quinta sezione del Tribunale motivano la condanna dell’ex deputato regionale di Grande Sud.
Nel giugno scorso a Mineo sono stati inflitti cinque anni per intestazione fittizia di beni con l’aggravante dell’articolo 7 – quella prevista per chi commette un reato favorendo la mafia – e tre anni e due mesi per peculato. Un totale di 8 anni e 2 mesi, a cui si aggiunge l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Cinque anni ha avuto Angelo Galatolo per intestazione fittizia aggravata, mentre è stato assolto dall’accusa di mafia. Prescritta la malversazione contestata a Settimo Trapani, responsabile dell’associazione Caput Mundi, attraverso la quale Mineo avrebbe fatto transitare migliaia di euro che, invece di sostenere le famiglie e gli anziani della borgata dell’Arenella, sarebbero serviti per pagare le campagne elettorali dell’onorevole. Le difese stanno già lavorando all’appello.
L’indagine prese le mosse nel 2010 da una perquisizione nello studio dei commercialisti Franzone. Gli investigatori della Dia trovarono un appunto. Era il promemoria, secondo l’accusa, per un passaggio di proprietà di alcuni immobili. Accanto al nome dell’acquirente c’era scritto: “Compra Angelo G.” Dalle visure catastali i pubblici ministeri Dario Scaletta e Piero Padova scoprirono che i locali erano in realtà di proprietà di Mineo. Da qui l’ipotesi che l’ex parlamentare avesse comprato due immobili per conto di Galatolo di cui sarebbe un prestanome e a cui sarebbero finiti i soldi degli affitti. Ipotesi smentita da Mineo (“mai dato un euro a questo signore”, disse riferendosi a Galatolo nel corso di un interrogatorio). In udienza aggiunse: “Quegli immobili erano miei, non sapevo nemmeno dell’intenzione di Galatolo di acquistarli”. I pm contestarono poi a Mineo anche un’ulteriore fattispecie di intestazione fittizia. Secondo la Procura, infatti, non solo Mineo sarebbe il proprietario sulla carta di alcuni immobili in realtà riconducibili a Galatolo, ma avrebbe anche messo a frutto questa proprietà riscuotendo gli affitti e versandoli allo stesso Galatolo.
Secondo il collegio presieduto da Pietro Falcone – il giudice estensore della sentenza è Fabrizio Anfuso – ci sarebbero “molteplici ragioni” che avrebbero spinto Galatolo a scegliere Mineo come prestanome: dal “suo radicamento nel territorio dell’Acquasanta” alla “risalenza nel tempo dei suoi rapporti fiduciari e di frequentazione con Angelo Galatolo ed altri esponenti ai vertici della nomenklatura mafiosa”, dalla “sua sperimentata affidabilità nel contesto mafioso dell’Acquasanta- Arenella”, alla “sua notorietà di uomo politico e agiatezza economica”.
La vicinanza alla cosiddetta “nomenklatura mafiosa” è stata ricostruita anche dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Tra questi, Francesco Onorato che, come ricordano ora i giudici, “formulava accuse di estrema gravita, descrivendolo come legato, sin dagli anni ’80, da rapporti relazionali e di frequentazione non episodici con personaggi di primo piano della cosca mafiosa dell’Acquasanta-Arenella e dello stesso mandamento di Resuttana, tanto da essere molto rispettato in tale consesso criminale”. Onorato descrisse la vicinanza di Mineo non solo ai Galatolo, ma anche ai fratelli Gaetano e Pietro Scotto. I giudici scrivono che “a tale torbida e diffusa rete di relazioni e contatti con soggetti variamente collegabili all’orbita mafiosa – di per sé stessa priva di rilevanza penale ma certamente significativa del radicato inserimento dell’imputato in un tessuto connettivo obiettivamente inquietante e meritevole di ulteriori approfondimenti – non è risultato affatto estraneo Angelo Galatolo, col quale il Mineo intratteneva da tempo una interlocuzione diretta, costante e pressocchè stabile, comprovata da numerosissime ed inoppugnabili evidenze processuali”.
Tra i motivi che avrebbero cementato i loro rapporti i giudici inseriscono il “fatto che il Mineo era – e verosimilmente è ancora – il politico di riferimento dell’Acquasanta che, oltre a costituire da sempre la sua roccaforte elettorale, è anche il territorio ove la cosca mafiosa dei Galatolo storicamente esercita in modo capillare e diffuso il suo potere intimidatorio”. Ecco che, proseguono i giudici, “una volta acquisita la disponibilità di un prestanome forte, qualificato, molto rispettato ed affidabile nel consesso mafioso, facoltoso ed assolutamente insospettabile, qual è sicuramente il Mineo, vi era, altresì, la cogente necessità di precostituire una fictio di lecita derivazione del denaro impiegato nella compravendita, in modo da immunizzare e mettere al riparo gli immobili dalle temute indagini di prevenzione patrimoniale. Il sistema più sicuro era evidentemente rendere tracciabile la provenienza dei capitali e, quindi, ricorrere a bonifici bancari, assegni circolari o, comunque, a modalità di pagamento verificabili ex post, obiettivo che nella specie può ritenersi realizzato solo in parte, perché a tutto concedere i pagamenti riferibili al Mineo dimostrabili per tabulas non superano i 150 mila euro, a fronte di un prezzo di acquisto complessivo di 360 mila euro”.
Proprio la tracciabilità era stato uno degli aspetti su cui si era concentrata l’accorata difesa di Mineo: “Ho tracciato l’intera somma. Sarebbe bastato per un momento dare importanza alla prova regina: i miei appunti, che erano all’interno del compromesso fatto per l’acquisto di quegli immobili. Come ogni persona ragionevole, che nulla ha a che fare con il malaffare e con la mafia, scrivo quanti soldi ho nei conti, i titoli che posseggo. I saldi sono cronologicamente datati. Sono tutti assegni circolari, nessuno di dubbia provenienza”.
Infine, i giudici stigmatizzano il comportamento di Mineo nelle vicende che gli sono costate la condanna per peculato. Avrebbe utilizzato per fini privati l’auto blu che gli spettava in quanto assessore del Comune di Palermo. Sul punto si legge nella motivzione che “il convergente e dettagliato racconto reso dagli autisti comunali sulla sistematicità con cui il Mineo, nel più assoluto spregio dei principi di legalità, efficienza, correttezza dell’utilizzo delle risorse pubbliche, gestiva per le più disparate esigenze private l’autovettura comunale, anche per assecondare i suoi familiari ed amici ovvero le sue segretarie, vale a ritenere di particolare gravita il danno patrimoniale cagionato al Comune di Palermo, avuto riguardo alle distanze percorse ed alla stabilità dell’uso indebito dell’autovettura, così come oltremodo significativa è la lesione provocata ai principi del buon andamento e della corretta ed efficiente funzionalità della stessa pubblica amministrazione”.