PALERMO – Più che la motivazione di un’assoluzione è un atto d’accusa nei confronti del modello investigativo che ha portato alla celebrazione del processo sulla presunta Trattativa fra lo Stato e la mafia. Un processo in cui pubblici ministeri avrebbero attribuito alle “congetture” dei pentiti la valenza e la forza dei fatti.
Nel caso di Giovanni Brusca addirittura le interpretazioni del collaboratore di giustizia sarebbero state “suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogativi, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami”.
Nelle 520 pagine della motivazione ci sono passaggi in cui la posizione dell’imputato Calogero Mannino passa in secondo piano rispetto alle critiche durissime nei confronti di Antonio Ingroia e degli altri magistrati del pool che indagò sulla Trattativa. Ingroia, infatti, prima di cedere alla tentazione della politica, è stato il procuratore aggiunto che ha raccolto le confessioni del pentito Brusca e del testimone chiave Massimo Ciancimino, la cui attendibilità viene ora distrutta dal giudice Marina Petruzzella.
Dopo avere passato in rassegna tutti gli interrogatori di Brusca, il giudice conclude che il collaboratore ad un certo punto iniziò “ad arricchire i suoi resoconti di elementi eclatanti, congetture e sintesi, anche confuse e di difficile comprensione, anche per gli stessi inquirenti che lo interrogavano”. Colpa dell’”eccesso di interrogatori” che in Brusca “determinò ad un certo punto un inevitabile condizionamento mentale, accentuando la sua tendenza a reputarsi depositario di molte verità non rivelate e a non distinguere più le opinioni dai fatti da lui conosciuti”. Il “collaboratore subì un martellamento, sempre sugli stessi episodi” e i rappresentanti dell’accusa hanno finito per attribuirgli “cognizioni di fatti, facoltà interpretative e ricostruttive che all’atto pratico il collaboratore ha mostrato di non possedere”.
A distanza di anni dall’inizio della sua collaborazione il boss di San Giuseppe Jato fece i nomi degli uomini chiave della stagione della Trattativa, Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Perché attese così tanto tempo? La risposta è stata la stessa di tanti altri collaboratori di giustizia: “Adduceva a giustificazione della sua trascorsa reticenza – si legge nelle motivazioni – un mix confuso di timori vari di non essere creduto, di mettersi al centro di polemiche e sollevare polveroni controproducenti, di essere delegittimato come collaboratore etc, e di ragioni di opportunità che lo avrebbero indotto ad evitare di tirare in causa Ciancimino e Dell’Utri”.
Nonostante “la confusione dei suoi ricordi e l’innegabile e ingiustificata progressione delle sue accuse, Brusca mostra invero di avere sulle situazioni di cui riferisce, su tali temi, delle conoscenze frammentarie e limitate”. Eppure, sottolinea il giudice, il collaboratore ha finito per essere considerato “il depositario di verità non rivelate”.
Il copione si è ripetuto anche con i Ciancimino. Perché secondo il giudice che ha assolto Mannino, non sono attendibili né Vito Ciancimino né il figlio Massimo che ha riferito ai pm di Palermo i segreti che il padre gli avrebbe confessato. Petruzzella ricorda che nel gennaio del 1993, dopo alcuni giorni dal suo arresto, don Vito chiese di essere ascoltato dai pm di Palermo. Preannunciava un progetto di collaborazione con la giustizia – mai avvenuta – e raccontava dei suoi contatti con gli ufficiali del Ros. Ciancimino parlò allora degli “omicidi dei suoi compagni di partito Michele Reina e Pier Santi Mattarella, sull’omicidio dell’onorevole Pio La Torre e su quello del generale Dalla Chiesa e su altri gravi attentati, sostenendo che la pista del movente mafioso sarebbe stata una montatura proveniente dagli stessi ambienti di chi si diceva favorevole alle azioni delle vittime, che al contrario avrebbero tratto vantaggio dalle loro morti”.
Sull’ex sindaco mafioso di Palermo, il giudice Petruzzella è tranciante: “Lo scritto di Vito Ciancimino ‘Le Mafie’ (si tratta di uno dei documenti consegnati dal figlio Massimo, ndr) è una rappresentazione nitida della sue tendenza a ribaltare le interpretazioni plausibili e giustificare le proprie condotte e ad attaccare frontalmente, distorcendo i fatti, l’atteggiamento di chi aveva il coraggio di denunciarle: nel capitolo che vi dedica a Falcone, lo dipinge come un persecutore e un uomo interessato al potere, lui, che strumentalizzava la sua professione di magistrato a fini di gloria personale”. Secondo il giudice, inoltre, è ipotizzabile “che anche in occasione dì quella sua relazione con i Ros (Vito Ciancimino) si fosse comportato in modo poco lineare e strumentale, e sull’assenza di elementi concreti per dubitare invece della credibilità dei due ufficiali: Ciancimino aveva in quella circostanza soverchi interessi personali per riportare a ciascuna delle due parti, tra le quali si poneva come intermediario e che non comunicavano tra di loro, messaggi modulati falsamente in base al suo tornaconto personale; sperava di conquistare benemerenze presso i giudici, di ottenere soprattutto il passaporto per potere meglio occultare all’estero il suo patrimonio e nello stesso tempo doveva coltivare buone relazioni con Riina e Provenzano, con messaggi adeguati agli uni e agli altri scopi”.
Dal 2008 il personaggio chiave dell’indagine diventa un altro Ciancimino, Massimo. Sui temi della Trattativa lo hanno interrogato cento volte, come ricorda il giudice. Le sue sue dichiarazioni bollate da Petruzzella come “contraddittorie, confuse, divagatorie e incorrenti” sono state considerate “problematiche” dalla stessa accusa. Eppure, sottolinea il giudice, i pm hanno concluso che nel “complesso le dichiarazioni del Ciancimino, depurate dalle loro criticità, assumono la funzione di terreno connettivo di tutti gli altri elementi probatori e di corroborante del loro reciproco peso probatorio”. Sono quattro i verbali di interrogatorio di Ciancimino jr ritenuti decisivi dalla Procura. Quattro su cento. L’analisi del giudice Petruzzella, al contrario, si è concentrata su tutti i resoconti di Massimo Ciancimino per concludere che “salta agli occhi la sua forte suggestionabilità, con la tendenza ad assecondare la direzione data all’esame dai pm, frammista a una propensione alla rappresentazione fantasiosa e spettacolare, e al contempo manipolatoria”.
Il “suo interagire con gli inquirenti” ha rivelato anche “la propensione a sfruttare a beneficio della propria immagine e notorietà mediatica la situazione processuale, attraverso un crescendo di rivelazioni sensazionali (sempre accompagnate dalla consegna di documentazione di pari valenza)”. Un esempio su tutti: “Il papello è stato fornito da Massimo Ciancimino soltanto nell’ottobre del 2009 ed in copia… dapprima Massimo Ciancimino mostrava di non sapere nemmeno dell’esistenza di tale documento, tra le carte del padre, ovvero di tracce scritte che potessero rivelarne il possesso da parte di Vito Ciancimino; successivamente dichiarava che il papello poteva trovarsi tra i documenti del padre Vito, da lui messi in salvo, in una località di cui, però, si rifiutava di rivelare il nome, facendo temere ai pm una defezione dalla ventilata intenzione di collaborare allo sviluppo degli accertamenti sul papello. In una seconda fase iniziava ad annunciarne e promettere solamente la produzione ai pm, respingendo costantemente i loro inviti ripetuti a rivelare il luogo in cui tenesse custodito il pregiato documento, finendo con l’ingenerare dubbi anche negli stessi inquirenti”.
Inquirenti che, però, sarebbero tutt’altro che immuni da responsabilità: “La specificità delle domande poste a Massimo Ciancimino fungeranno da predisposizione del terreno per portare per le lunghe le sue dichiarazione, decidendo quando e quali documenti selezionare e fornire a sua discrezione ai pubblici ministeri”. Ciancimino jr li ha “tenuti sulle corde” e “accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia” ha popolato i suoi racconti di misteri e fantasmi. Alcuni Petruzzella li annota nella motivazione: “L’autore del papello consegnato dal Ciancimino ai pm non è stato identificato (la polizia scientifica, incaricata dalla Procura, ha escluso che il manoscritto fosse di Riina, del Ciancimino o alcuno dei soggetti presi in considerazione per le comparazioni grafiche); del signor Carlo/Franco – l’uomo che avrebbe tenuto i rapporti col padre Vito (ma anche con lui) consigliandolo direttamente o facendo da tramite anche con Bernardo Provenzano, Massimo Ciancimino non ha fornito alcun dato autentico e utile ad identificarlo; a ogni piè sospinto di questo glorioso percorso, Massimo Ciancimino riferiva di visite di avvertimento di fantomatici uomini in divisa da carabinieri, accompagnati da emissari del signor Franco/Carlo, di minacce epistolari e verbali di morte e di intimidazioni, nella casa di Palermo e in quella di Bologna, mai tempestivamente denunciate, a suo dire per non gettare allarme, a fronte però – nota il giudice- della messa in circolazione da parte sua di sospetti di eventi sempre più catastrofici e del costante ampliamento e innalzamento verso l’alto dalle sue accuse”.