Il 6 agosto 1980 il Procuratore capo di Palermo Gaetano Costa veniva ucciso con tre colpi di pistola alle spalle in via Cavour, mentre sfogliava i libri di una bancarella. Fu uno dei primi magistrati a intravedere il nuovo volto politico della mafia in Sicilia, ma al Palazzo di giustizia di Palermo trovò più resistenza che collaborazione. A trent’anni dall’omicidio non è stato dato ancora un nome ai responsabili. Livesicilia ha intervistato il figlio del procuratore, l’avvocato Michele Costa.
Sono passati 30 anni da quel 6 agosto 1980 in cui suo padre morì. Nessuno è stato mai condannato per l’omicidio. Si è parlato di una vendetta mafiosa ad opera del boss Salvatore Inzerillo, toccato dalle indagini svolte da suo padre. Ma – nonostante tutto – i mandanti dell’agguato non hanno un volto. Cosa prova a non avere ricevuto giustizia?
“La sentenza stabilì che fosse verosimile che la causale dell’omicidio dovesse essere cercata nelle indagini condotte da mio padre sui legami tra politica e criminalità. In poco più di due anni aveva toccato infatti punti nodali. Fu toccato direttamente quello che poi sarà chiamato il sistema Ciancimino. La Corte d’Assise di Catania affermò che non si trattava di un semplice atto di vendetta di un criminale (Costa firmò i mandati di cattura del boss Rosario Spatola e dei suoi uomini, atti che altri magistrati si erano rifiutati di firmare, ndr), ma che c’erano altri interessi dietro. E’ stata quindi respinta la tesi sostenuta da molti, la più comoda da credere, ovvero quella che la mano che ci stava dietro fosse semplicemente mafiosa. Io e la mia famiglia non abbiamo mai accettato questa tesi e l’abbiamo pagata cara. Non siamo mai stati risarciti né abbiamo mai avuto la soddisfazione di sapere chi firmò la condanna a morte di mio padre”.
Nel 1978 Gaetano Costa viene nominato Procuratore capo di Palermo. Ma al Palazzo di giustizia trova un clima ostile. Si è detto che fu lasciato solo. Che clima si respirava in Procura in quegli anni?
“Un magistrato è sempre solo, per principio. E’ solo in compagnia della sua coscienza, se ce l’ha. Quello che solitamente gli dà la forza per andare avanti è la convinzione che il suo lavoro sarà continuato da qualcun’altro dopo di lui. Mio padre era un corpo esterno, anomalo, all’interno del Palazzo di giustizia di Palermo. E’ stato l’elemento di turbamento di un equilibrio in cui alcuni comportamenti criminali venivano tollerati. Si rassicurarono certi ambienti che sarebbe bastato rimuoverlo per fare tornare tutto come prima. Questo non accadde, perché il lavoro di mio padre fu continuato da Rocco Chinnici, anche lui poi ucciso dalla mafia”.
Gaetano Costa aveva paura per quello che stava facendo?
“Mio padre diceva spesso: “il giorno in cui avrò paura di fare il mio lavoro me ne andrò, lascerò la Procura per un incarico più sicuro”. Come dicevo prima, quello che permetteva a mio padre di andare avanti era la convinzione che il suo lavoro non sarebbe morto con lui. E ha sempre rifiutato la scorta perché non voleva essere responsabile per l’eventuale morte degli uomini che lo avrebbero accompagnato”.
Suo padre è stato uno dei primi a capire che la mafia degli anni 60 stava cambiando volto, inserendosi in maniera sempre più capillare all’interno della politica. Ormai è accertata la simbiosi mafia-politica. Pensa che se fosse stato dato modo a suo padre di lavorare si sarebbe potuta fermare l’ascesa di Cosa Nostra in politica o poco sarebbe cambiato?
“Non penso che mio padre avesse la bacchetta magica, però probabilmente se ci fosse stato l’interesse di proseguire il suo lavoro a quest’ora forse dentro le carceri avremmo qualche colletto bianco in più”.
A proposito di mafia e politica, cosa pensa della condanna di Cuffaro? Cosa ha provato quando ha saputo della sentenza della Corte di Cassazione? C’è chi ha esultato, chi ha provato vergogna in quanto siciliano, chi pietà umana.
“Non esulto mai quando una persona, una qualsiasi persona, finisce in galera e vede compromessa per sempre la propria vita. Non provo neppure vergogna, perché ognuno è responsabile delle proprie azioni, non ci sono colpe collettive da espiare. Non ho alcuna responsabilità – in quanto siciliano – su quanto fatto da Cuffaro. Per quanto riguarda la pietà posso dire che solitamente si prova pietà quando le disgrazie altrui sopraggiungono per cause involontarie, ma in questo caso penso che l’ex governatore se la sia in un certo senso voluta. In ogni caso una sentenza proveniente dalla Cassazione segna l’arresto, la fine di tutto. Viviamo in un clima di barbarie giuridica dove ogni sentenza viene sempre rimessa in discussione, non si accetta mai il suo esito, si grida al complotto. A questo proposito c’è da dire che Cuffaro ha fatto semplicemente quello che era giusto e normale che facesse: accettare la sentenza e consegnarsi alle autorità. C’è chi, invece, plaude e si complimenta per un comportamento che in qualsiasi paese civile sarebbe giudicato dovuto. E’ grave che la normalità divenga eccezionalità. E’ in un certo senso sintomatico di quello che sta succedendo in Italia, dove il premier da quasi vent’anni parla di complotti e toghe rosse. Ma questa è un altra storia…”
A proposito di toghe rosse, suo padre fu anche un partigiano. Se fosse ancora vivo di questi tempi avrebbe le carte in regola per essere accusato di essere un magistrato politicizzato.
“Sì mio padre era comunista, lo è sempre stato. Ma quando iniziò la carriera da magistrato consegnò la tessera al partito e obbligò anche mia madre a non fare più politica attiva. Nonostante ciò veniva sempre chiamato “giudice comunista”. Quindi forse le cose non erano tanto diverse nemmeno a quei tempi”.
Nel 1987 Sciascia parlava dei professionisti dell’antimafia, a proposito di alcuni magistrati del pool antimafia di Palermo che, a suo dire, avrebbero utilizzato la lotta alla mafia per fare carriera. Cosa avrebbe risposto suo padre se fosse stato vivo? E lei, invece, cosa pensa dell’antimafia attuale? Si può parlare ancora di professionisti dell’antimafia?
“Penso che mio padre sarebbe stato d’accordo con Sciascia. Sono state dette tante cose su quel famoso articolo dello scrittore sul Corriere della sera, ma spesso se ne sia parlato a vanvera. Le stesse accuse mosse da Sciascia le sosteneva una corrente del Csm, che chiedeva che alcune regole che si stavano violando venissero rispettate. Credo che adesso stiamo ricadendo nello stesso errore. Alcuni vedono la mafia solo dove dà loro fastidio e – viceversa – fanno finta di non accorgersene quando conviene. Poi ci sono i casi di chi si considera eroe dell’antimafia pur non essendolo, penso a Vittorio Sgarbi e la sua richiesta di scorta. Poi è chiaro che ci siano professionalità molto più elevate che conducono costantemente una battaglia serrata contro Cosa Nostra”.