Il caso Impastato non è chiuso | "Strategie deviate per aiutare i boss" - Live Sicilia

Il caso Impastato non è chiuso | “Strategie deviate per aiutare i boss”

Peppino Impastato

A distanza di 36 anni dal delitto si deve scavare in quelle presunte complicità che potrebbero avere garantito l'impunità a Gaetano Badalamenti, condannato per l'omicidio, e ad altri pezzi da novanta di Cosa nostra.

L'OMICIDIO DEL 1978
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PALERMO – Il caso di Peppino Impastato non è chiuso. La prescrizione, al momento, non spazza via i presunti depistaggi nelle indagini sull’assassinio del militante di Democrazia proletaria. Il giudice per le indagini preliminari ha ordinato al pubblico ministero di continuare ad indagare. A distanza di 36 anni dal delitto si deve scavare in quelle presunte complicità che potrebbero avere garantito l’impunità a Gaetano Badalamenti, condannato per l’omicidio, e ad altri pezzi da novanta di Cosa nostra.

Per altri sei mesi si dovrà scandagliare la posizione del generale del Ros Antonio Subranni, dell’ex ufficiale Carmelo Canale e dei marescialli Francesco Di Bono e Francesco Abramo. Subranni è indagato per favoreggiamento, Canale e i due sottufficiali per falso.

Le accuse sono relative a fatti del 1978, quindi ampiamente prescritte. Il giudice, però, non ha accolto l’istanza di archiviazione dei magistrati. Canale aveva già fatto sapere di rinunciare alla prescrizione, chiedendo lui stesso di andare avanti per accertare “la verità e la mia estraneità”. E disponendo il supplemento di indagini, il giudice rimarca la richiesta di Canale. Agli atti dell’inchiesta aperta allora per la morte di Impastato c’era anche la perquisizione in casa della zia di Peppino e il ritrovamento di alcuni documenti non citati nel verbale. Da qui l’accusa di falso contesta a Canale secondo cui, invece, la perquisizione sarebbe avvenuta a casa della madre di Peppino, senza che lui vi partecipasse.

Subranni, difeso dall’avvocato Basilio Milio, aveva contestato le dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo che hanno consentito la riapertura dell’inchiesta sul depistaggio. Il collaboratore di giustizia ha raccontato, 34 anni dopo, ai pm che Subranni avrebbe coperto il ruolo del boss Tano Badalamenti nell’omicidio del giovane militante della sinistra extra parlamentare, ricavandone benefici nella carriera. L’avvocato Milio aveva bollato come “tardivi” i ricordi del pentito, smentendo la tesi della protezione assicurata da Subranni a Badalamenti: il generale, infatti, poco dopo l’omicidio Impastato, ha sostenuto la difesa, denunciò il capomafia. Per il legale inoltre “se si ipotizza il reato di favoreggiamento a carico di Subranni la stessa accusa deve ipotizzarsi per i periti e tutti i magistrati che seguirono e coordinarono l’inchiesta. La verità è che non sussiste alcun favoreggiamento per nessuno”. Piuttosto tutti gli inquirenti – per Milio – fuorviati dal clima dell’epoca formularono le ipotesi poi rivelatesi errate sulla matrice della morte di Impastato.

“L’organo inquirente ha dato atto, sia pure in termini di estrema sintesi – scrive ora il giudice Pino – delle ‘numerose anomalie’ che contrassegnarono quell’attività investigativa nonché della pervicacia con la quale venne affermala e sostenuta la causale del suicidio e di contro, neppure ipotizzato l’omicidio di matrice maliosa sebbene, al riguardo, fossero state acquisite indicazioni nette dagli amici, dai compagni di partito e dai prossimi congiunti dell’Impastato”. Lo stesso pm, lo ricorda il giudice, ha rimarcato che alcuni elementi investigativi “convergano nel ritenere Subranni autore di una ‘obiettiva condotta di di depistaggio “.

Secondo il Gup,”siffatta condotta, nella valutatone sviluppata dal pubblico ministero, è da inquadrare nel contesto delle relazioni instaurate tra cosa nostra ed ‘alcune articolazioni degli apparati investigativi dello Stato’ che agiscono in esecuzione di strategie deviate; lo configura quale tassello di una più articolala attività delittuosa con continuità volta a preservare dalle iniziative dell’Autorità giudiziaria e dalla legittima pretesa punitiva dello Stato non soltanto Badalamenti Gaetano (che Peppino dalle frequenze di Radio Aut chiamava ‘don Tano Seduto’ ndr) ma anche altri esponenti apicali del sodalizio malioso cosa nostra”. Temi che, secondo il giudice, devono essere approfonditi. Così come va approfondito il lavoro di denuncia di Peppino Impastato, ricordato dal fratello Giovanni, degli strani rapporti fra “i carabinieri e i gerarchi fascisti operanti in territorio di Cinisi”.


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