PALERMO – Santuzza Nostra, volgi i tuoi occhi su Palermo, scendi dalla montagna e salvaci. Perché mai abbiamo sofferto tanto come soffriamo ora. Eravamo già brutti e sporchi e siamo pure cattivi. Invece che gettare via le scorie, le coltiviamo nel risentimento.
Te la ricordi com’era Palermo, Santuzza? Aveva una sua bruttezza compatta, eppure, lì in mezzo, c’era qualche slargo per respirare e per guardare un po’ d’orizzonte. Su quella fessura qualcuno costruì la favola suadente della Primavera. Sembrava che funzionasse, ma, se fioriture ci sono state, non ce ne siamo accorti.
E siamo sempre stati sporchi, quaggiù, coltivando, tuttavia, accanto alla perdizione, un’idea di candore, una immacolata concezione di Palermo che era il contrappunto della disperazione e serviva a respirare nelle pause. Ora non più. E mai, quasi mai, siamo stati così cattivi, come siamo adesso.
Guardaci. La munnizza si mostra trionfante, compatta. E non ci possono le lusinghe, le minacce, i mezzi della Rap inviati con la monumentalità di una brigata meccanizzata per opporsi al fetore che sale. La munnizza torna alla ribalta, si impone, come se volesse dirci: altro che cultura, questa è la capitale del pannolino usato e abbandonato accanto al materasso di dieci anni fa.
Ma la celeberrima munnizza non è soltanto un fenomeno fisico, l’invasione di un molesto ultracolpo; essa raffigura una metafora, si propone come destino, per testimoniare l’impossibilità di una redenzione. Sicché, il cuore lacrima per il cassonetto di oggi e per la sventura di domani, perché l’unica fede che coltiviamo è seminata nel campo della rassegnazione.
E siamo diventati rancorosi, come mai era accaduto. Infatti, se un uomo come Biagio Conte, con le piaghe del cammino sui piedi e i suoi occhi che si mantengono limpidi, decide di partire per testimoniare il dramma delle persone migranti, ecco che sul web fioriscono commenti velenosi che lo trattano da disertore. Avevamo poco, ma quel poco comprendeva il talento di accogliere e di capire. Avendolo smarrito, che ne sarà di noi?
Guarda la tua città, Santa Rosalia, guarda il tuo Festino. Vedrai la processione di un popolo accaldato, invecchiato, rabbioso e stanco. Molto è andato smarrito. Tutto sovrasta la puzza della cenere che cala da Bellolampo in fiamme a giorni alterni. La discarica è il santuario perfetto di una comunità che si percepisce alla stregua di un bene deperibile. Non c’è pane, non c’è lavoro, non c’è e non ci sarà nel cuore annerito di Palermo Infelicissima.
Ed è perciò più che mai necessario pensarti, ora, Santuzza, come un’amica che potrebbe tendere la mano, per accarezzarci il viso, per offrire consolazione, se non più soluzione, una goccia di ristoro per la nostra sete. Per libera associazione con te, dolcissima fanciulla nascosta sul tuo monte selvatico, accade di ripensare alle tante magnifiche donne che Palermo non ha valorizzato come avrebbe dovuto. Le donne qui sono santini da accantonare una volta che è trascorsa la celebrazione.
C’era Rita Borsellino che chiuse con un sorriso un po’ triste la sua vita spesa per la giustizia. C’era Alessandra Siragusa che ci manca ogni giorno nel rimpianto di ciò che poteva essere ma non è stato. E altre ce ne sono state di donne che avrebbero meritato un diverso finale di partita. E ancora altre ce ne sarebbero che non avranno mai l’occasione di andare avanti tra le mura di una città imprigionata.
Santuzza Nostra, volgi i tuoi occhi su di noi. Perdonaci per tutte le volte che ti abbiamo tradito. Noi, stasera, saremo dietro il tuo carro, circondati dalla munnizza e dai miasmi del rancore. Grideremo in coro: “Viva Palermo e Santa Rosalia”, ritenendoci assolti dalla misericordia di un babbaluci a cui avremo succhiato l’anima. E poi, domani, ricominceremo a peccare.