Palermo, chi viene, chi va |e chi passa "in" Vucciria - Live Sicilia

Palermo, chi viene, chi va |e chi passa “in” Vucciria

Chi si ricorda dei volti di una città ridisegnata, male, per uso e consumo di un popolo di passaggio. E mentre tutti questi volti passano a restare è proprio Palermo e lo sguardo di chi di questa città ha fatto la storia.

 

I volti di Palermo non sono soltanto i volti delle persone che la vivono. Non sono soltanto i giovani in fuga che cercano fortuna altrove o le facce in bianco e nero sulla terza pagina. Non sono i guidatori dentro al suv, la ragazza in centro con la borsa firmata al braccio, il biglietto da visita macchiato di caffè dell’agente immobiliare sul tavolino del bar o lo sguardo azzurro del sufista sotto i capelli bruciati dal sole. Non sono le espressioni inferocite, deluse e spaventate di chi protesta per un posto di lavoro e non sono le mani in movimento dell’oratore del giorno che vuole calmare le acque.

Palermo è il garzone del panificio che oggi è chiuso, la tunisina che sistemava la frutta sul bancone ed è anche il ragazzo che buttava l’acqua fresca sul pesce alla Vucciria, anzi ‘in’ Vucciria, come si dice adesso. Adesso che ci si va per altri motivi, in Vucciria. Adesso che si che c’è vita, in Vucciria. Una vita simulata in una Palermo estremamente scenografica che grida alla rinascita ma che di Palermo non riesce a conservare niente. Solo la parvenza, il ricordo, l’amarezza.

Di Palermo resta lo sguardo di chi di questa città ha fatto la storia. Un volto che è stato, a suo tempo, simbolo gratificato e gratificante di una cultura e di una forma di vita realmente alternativa, dove in uniche le leggi in vigore erano dettate dall’autonomia di una mentalità a sé. Questo volto adesso è inespressivo, nascosto dalla folla, sepolto sotto quintali di articoli di giornale dedicati ad altro, che il suo tempo è passato, ammutolito dalle risate di chi non sa e non saprà mai e soffocato da una nuova generazione, quasi non riesce più a respirare.

Un’identità persa, essiccata e pronta a sbriciolarsi, tenuta insieme da pochi, pochissimi, estimatori, professori di un’idea e reduci di un’atmosfera che a stento trovano. Palermo non è la mostra fotografica d’archivio sulle sue strade immortalate negli anni ’50 se la stessa strada oggi è infotografabile, è il suo stordimento. È il grido silenzioso della memoria che nuota cercando di riemergere, contro il rumore sordo, basso, di chi con una forza bruta la spinge giù, più giù, per costruirci sopra brutture, ma brutture fluorescenti.

La fuga sì, la fuga. Verso il mare, verso la periferia. Dove un bottegaio laureato in economia e finanza avvolto in un camice con il marchio del supermegaipermaximercato mi consiglierà un nuovissimo formaggio belga biologico. Lui che la sera va a bere birra in centro. Lui che non sa che la saracinesca contro la quale si appoggia è dello Shangai ed è chiusa da anni, non sa nemmeno che mentre ride con i suoi amici sta disturbando il sonno di qualcuno che lì ci è arrivato prima di lui e quando andrà via per non tornare, lui sarà sempre lì.

Non come noi. Noi non lasceremo che il nulla, sbigottito, scomodo, pruriginoso e fastidioso nulla. Polvere alla polvere. Nessun segno, nessun retaggio, nessun fortunato erede, forse, un insegnamento. Immagino lo sguardo di chi si trova a passare da qui dopo tanto tempo ed è accolto da una città ridisegnata, male, per uso e consumo di un popolo di passaggio. Noi che non dovremo stupirci se del nostro volto non si ricorderà nessuno.

Noi che, impossibilitati nel costuire, distruggiamo lasciandoci dietro decine di bottiglie vuote e bicchieri di plastica con dentro mezzo limone e qualche cicca di sigaretta, come sul pavimento della Vucciria il sabato mattina. Ma ormai è questione di tempo, si asciugherà.

 


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