"Palermo è la città dei giocolieri | Ma io non perdo la speranza" - Live Sicilia

“Palermo è la città dei giocolieri | Ma io non perdo la speranza”

"Il mio nemico è un mafioso". Così ha scritto Francesco Massaro su DiPalermo raccontando la sua storia di ribellione da commerciante coraggioso. Siamo andati a trovarlo al bar. Un'arancina. Un caffè. E un'intervista.

PALERMO- Dalla porta del bar Massaro può entrare la città tutta intera. Onesti e disonesti. Operai, medici, studenti, assassini. Come ti difendi dal calcolo delle probabilità, se non inventando ogni giorno il coraggio di aprirla? Ecco Francesco Massaro, Ciccio per amici e conoscenti. Gli chiedo se ha paura, dopo avere scritto al culmine delle rapine che affliggono il suo bar: “So bene, per come sono state commesse, che si tratta di segnali chiari che mi vengono lanciati per spingermi a cercarmi ‘un amico’, il mafioso della zona a cui chiedere protezione, ma proprio non ho intenzione di starci”.

Dunque, hai paura?
“No”.

Ciccio era un cronista in vetrina al Giornale di Sicilia, quando ho iniziato. Noi ‘biondini’ – così nei giornali sono definiti i nuovi collaboratori anche se sono bruni di carnagione e mastodontici – lo guardavamo con rispetto. Non era mai altero, né scostante. Lavorava alla scrivania, come tutti. Ogni tanto saltava dalla sedia per inseguire una notizia, un cadavere, una pista. Lo ritrovo a casa sua, nel bar di famiglia che ha preso in consegna, abbandonando l’antica carriera. Un’arancina croccante. Un ottimo caffè. Qualche timido sorriso. Le parole espresse di questa intervista.

Hai detto basta al ricatto di chi vorrebbe imporre la sua protezione. Hai scritto sul tuo blog, DiPalermo: “Aspetterò paziente che qualcuno tolga di mezzo la gentaglia che impedisce a quelli come me di guardare il cielo, di respirare, di sorridere, di lavorare”. Altri avrebbero abbozzato. Perché tu hai reagito?
“Intanto, una premessa. Non sono un simbolo. Non mi piace mettermi la casacca dell’eroe. Detesto la morbosità. Ho voluto tracciare un confine. Io sto di qua, loro di là. Noi, quelli che viviamo e lavoriamo onestamente, non possiamo sottometterci alla violenza. In fondo, è semplice”.

Tantissimi si sono schierati con te.
“Mi ha colpito la risposta delle persone. Perfino il web e i social si sono trasformati in catene di solidarietà, luoghi in cui ho trovato calore e sostegno. E’ una spinta formidabile per andare avanti”.

Hai più fiducia in chi ti sta vicino o più rabbia per i parassiti senza nome che minacciano gli onesti?
“Sono moderatamente speranzoso. Avverto l’esistenza di due città. C’è una Palermo che cresce, che si evolve, che cambia nel bene. C’è un’altra Palermo che resta se stessa nel male. E che non potrà mai essere diversa. Ma prima esisteva soltanto la seconda. Io sono convinto che i buoni rappresentino la maggioranza”.

Ascoltavo le intercettazioni del blitz di mafia (la chiacchierata coincide con gli arresti di mafia recenti, ndr). Voci gutturali, selvagge. Come decenni fa. Come se il tempo non fosse mai trascorso.
“E’ la città peggiore che non può redimersi, altrimenti sparirebbe. Se avessi modo di discutere con personaggi del genere, mi piacerebbe sapere come sopportano la vita che fanno. Raduni atroci nei capannoni di lamiera. Il dolore. La famiglia distante. Un’esistenza braccata. Il rischio dell’uccisione e dell’arresto. Perché?”.

Tu che ne pensi?
“Non lo so. So che non ci sto. Nel mio blog ho scritto: ‘Sarebbe facile ma non lo faccio. Non andrò a bussare dal capetto mafioso per chiedergli una tregua, non prenderò il caffè con lui per vedere di chiudere la faccenda come facevano i nostri padri e i nostri nonni. Non comprerò la mia tranquillità pagando il pizzo. Sarebbe la scelta più comoda, ma non lo farò’”.

Come hai maturato la tua intransigenza?
“L’ho sempre avuta e ho trovato l’occasione di esprimerla. Prendere un caffè con qualcuno, a Palermo, è un preciso segnale. Bisogna stare attenti”.

Davvero non hai paura?
“Non sono più i tempi di Libero Grassi, almeno credo. Le istituzioni mi sono vicine. Il sindaco Orlando è venuto ad abbracciarmi. C’è l’altra città, quella buona, quella che ai tempi di Grassi non esisteva”.

Stai spesso alla cassa. Che panorama osservi da lì?
“Operai, studenti, medici e, certo, malacarne. I bar hanno antenne sensibilissime, registrano movimenti, volti. Da qui ho notato le due velocità. La lentezza di chi non progredisce, la rapidità di chi lotta”.

Sembra la cronaca di una frattura insanabile.
“Palermo è divisa a metà. Non si tratta di semplici differenze, ma di opposti inconciliabili. Ci sarebbe da impazzire. Solo che…”.

Solo che?
“Noi palermitani diventiamo, con l’esperienza, abilissimi giocolieri. Saltelliamo su un piede da un’estremità all’altra, lanciando i birilli in aria. E non ne cade neanche uno. Per questo, fuori dai confini, possiamo affrontare qualunque sfida. Che vuoi che sia se paragonata all’abilità che serve per sopravvivere qui”.

Da commercianti, occorre un’abilità raddoppiata.
“Le banche ci mangiano vivi. Scriveva Mark Twain: ‘il banchiere è uno che ti presta l’ombrello col sole e se lo riprende quando piove’. Ho sulle spalle un’azienda con trenta dipendenti che devo pagare ogni mese per rispetto del loro lavoro, a garanzia delle famiglie che ci sono dietro. Non baro, non rubo la luce. Mi vergognerei troppo. Che credibilità conserverei con i miei amici, una volta scoperto?”.

Ti vedo un po’scosso.
“E’ un periodo di emozioni forti, non lo nego. Però non mollo”.

Cosa ti rende felice?
“Tante cose. I ragazzi di una scuola di Macerata che sono arrivati per stringermi la mano. Il vecchietto che abita praticamente dall’altra parte del mondo e viene qui, accompagnato dal badante, perché ama le iris che friggiamo noi. Vuole proprio quelle e niente altro”.

Le tue arancine sono gustose come i tuoi articoli di un tempo. Cosa provi a sentirtelo dire?
“Mi commuovo. Proprio come adesso”.


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