(Roberto Puglisi, Palermo) La chiesa di Sant’Espedito è stracolma. Sono quasi tutti medici e infermieri, persone che lavorano con il camice, donne e uomini della sanità. Sono convenuti qui, in una sera di marzo, per salutare Emanuela Tumbarello, medico generoso, quarantanove anni, morta all’improvviso.
Nonostante un carattere schivo davanti agli elogi, quanto solare nei rapporti umani, la dottoressa Tumbarello era finita sulle pagine della cronaca per avere salvato (non da sola, teneva a sottolineare) una bambina approdata a Lampedusa e devastata dall’acqua di mare che aveva bevuto. E l’aveva raccontata quella storia, la dottoressa Emanuela, con la ritrosia di chi non vuole stare in prima fila, nonostante i meriti. Con l’umiltà di chi conosce gli aspetti più estremi della vita.
Un concetto che il parroco, don Pietro Magro (è lui a celebrare la Messa), sottolinea nella sua omelia: “Emanuela ha dato la vita a tanti, ha salvato anche quella bambina. Lei aveva scelto la missione di Dio. Siamo riuniti qui nel nome dell’amore”.
Sono tante le anime, tra le navate, che condividono la stessa missione, l’identico orizzonte. E il dolore non è diverso, anche se hai studiato sui libri che mostrano perché si vive e perché si muore. Ma lo smarrimento davanti alla perdita reca con sé l’innocente brutalità di una notizia del disastro. E questo vale per tutti.
I ricordi si sovrappongono, parola dopo parola. “Emanuela era una forza della natura – dice Liana, collega -. Una persona allegra e buonissima. Vede questo foulard che indosso, lei ne aveva uno quasi uguale. Avevamo presenziato da testimoni a un matrimonio, con i foulard come segno di riconoscimento”. “Emanuela era un sole – spiega Gaspare, compagno di scuola -. Siamo distrutti per quello che è successo”.
In prima fila ci sono i genitori, la sorella e i figli della dottoressa che teneva celato il proprio quotidiano eroismo. Il dolore è una cappa pesante. Ma c’è l’eco di tutte quelle vite donate, per sempre.