Palermo, mafia: erano al 41 bis, perché i Fontana sono stati assolti

Palermo, mafia: erano al 41 bis, perché i Fontana sono stati assolti

Hanno smarrito il controllo del territorio
LE MOTIVAZIONI
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PALERMO – I Fontana non hanno dato recente prova di essere mafiosi dell’Acquasanta. E non basta che lo siano stati in passato per condannarli.

Questa è in sintesi la motivazione con cui il giudice per l’udienza preliminare Simone Alecci, lo scorso ottobre, ha inflitto una sfilza di condanne ma ha assolto i fratelli Angelo, Giovanni e Gaetano Fontana, ma anche la sorella Rita e la madre Angela Teresi. I maschi di casa erano al 41 bis.

Sono tutti figli del boss Stefano Fontana, oggi deceduto. Boss potente e carismatico, la cui forza è bastata per fare passare in secondo piano il pentimento di un membro della famiglia, Angelo Galatolo. Il passato dei figli è certamente mafioso ma, scrive il giudice, “non si può sostenere che per dimostrare la consumazione del reato associativo per il periodo successivo non occorre provare ex novo il fatto della partecipazione all’associazione mafiosa, rivelandosi bastevole rinvenire elementi probatori che attestino che l’imputato, lungi dal recidere il già dimostrato vincolo associativo, abbia persistito nell’inserimento nel sodalizio”.

Insomma, “chi è già stato attinto dalla condanna per associazione mafiosa sia vincolato al sodalizio fino alla morte ovvero alla scelta di collaborare. Detto altrimenti il vincolo si instaura nella prospettiva di una permanenza tempo indeterminato nell’ottica di un legame che tendenzialmente vincola per sempre”.

A condizione che il vincolo sia provato nell’attualità. Ed ecco il passaggio decisivo della sentenza: “I Fontana hanno completamente smarrito il controllo del territorio, conservando semplicemente un coacervo di attività di provenienza illecita in quanto, come ammesso da Gaetano Fontana, si tratta del frutto degli investimenti di denaro sporco effettuate dal padre Stefano, su cui lucrare profitti e canoni di locazione in condizioni di piena autonomia”.

E ancora: “Rita, Angelo, Gaetano ed Angelo Fontana hanno deliberatamente sradicato il loro centro di interesse economico, personale, affettivo, relazionale da Palermo e l’hanno trapiantato a Milano”.

Di per sé ciò non basterebbe a negare il loro potere in Cosa Nostra che può anche essere esercitato in forme nuove. Al contempo, però, “appiattirlo sulla base di una sorta di colpa d’autore o di cognome significherebbe tradire lo stesso spirito delle sezioni unite”, secondo cui “non può esserci automatismo probatorio”.

I Fontana hanno fatto affari a Milano, nel settore dei gioielli e degli orologi di lusso e del caffè. Anche su questo fronte, però, “nessuna attribuzione di provvista economica in termini elusivi e è stata effettuata dai fratelli Fontana con la complicità del loro imputati, i quali sono professionisti che operano nel settore merceologico di interesse che sono completamente sganciati dalla realtà palermitana”.

Bisogna provare l’esistenza del “dolo specifico di eludere disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale”. Bisogna dimostrare che dietro la “fittizia attribuzione” di un bene ci sia la volontà di coprire le attività illecite.

Per tutto questo è passata la linea difensiva degli avvocati Valerio Vianello, Jimmy D’Azzò, Vincenzo Giambruno, Alessandro Martorana, Monica Genovese e Gianluca Corsino. Non ha retto l’accusa che i Fontana fossero rimasti al vertice della famiglia mafiosa. I fratelli Fontana erano addirittura finiti al 41 bis, il carcere duro.

Ha retto invece l’ipotesi che a gestire il potere siano stati i Ferrante, che con i Fontana sono imparentati.


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