PALERMO – Vincenzo La Cascia, Nicola Accardo e Raffaele Urso. Degli undici fedelissimi di Matteo Messina Denaro condannati ma scarcerati per scadenza dei termini sono loro i personaggi di maggiore spessore. I primi due fino a ieri, lunedì 14 ottobre, erano detenuti al 41 bis.
La Corte di appello di Palermo li ha condannati in un nuovo processo dopo che l’anno scorso la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza per rivalutare alcune aggravanti.
Nel frattempo, però, sono scaduti i cosiddetti termini di fase. E cioè il tempo massimo entro il quale avrebbe dovuto concludersi il giudizio di secondo grado.
La Cascia
La Cascia è il più anziano. Capomafia di Campobello di Mazara, è stato il campiere dei terreni della famiglia di Matteo Messina Denaro per conto del quale ha impartito gli ordini sul territorio. Il padrino deceduto nel 2013 firmò una lettera intimidatoria per dirimere, a modo suo, la questione sull’utilizzo di un terreno che in passato era stato anche nella disponibilità di Totò Riina e poi del boss Alfonso Passanante.
Infine era stato ereditato dai figli di quest’ultimo. Messina Denaro avrebbe esercitato pressioni affinché cedessero la proprietà di un fondo agricolo in contrada Zangara.
Il 29 dicembre 2013 la figlia di Passanante, Giuseppina, fu intercettata mentre chiedeva ad un altro boss, Vito Gondola, informazioni sulla missiva che gli sarebbe stata consegnata da Vincenzo La Cascia. Messina Denaro ne parlò in uno degli interrogatori con i pubblici ministeri. “Vincenzo La Cascia lo conosco, ha lavorato tanti anni con me tutti gli anni ’80 fino a quando sono stato libero fino al 1993”, raccontò il boss per scagionare La Cascia.
Firmato Messina Denaro
Il padrino confermò di avere firmato la lettera. Voleva indietro il terreno perché era della sua famiglia: “Questo terreno è stato comprato da mio padre nel 1983. Mio padre era amico del padre della signora Passanante e allora ha chiesto a Passanante Alfonso se poteva fare il favore di intestarsi questo bene… allora che cosa ho fatto l’ho contattata con una lettera… ho firmato con Matteo Messia Denaro perché io credevo di essere nella ragione”.
Nicola Accardo
Di Nicola Accardo, considerato il capo della famiglia di Partanna, e dei suoi rapporti con Messina Denaro, si parla dalla fine degli anni Ottanta, quando le loro famiglie furono alleate nella guerra che vide soccombere gli Ingoglia. Fu una guerra sanguinosa, Nicola Accardo perse il padre Francesco e lo zio Stefano.
Arrestato nel 1992, ma assolto due anni dopo, Nicola Accardo finì di nuovo in cella nel blitz “Anno Zero” del 2016. “Dice che era in Calabria ed è tornato”, spiegava a proposito del latitante la cui presenza in terra calabrese è tuttora oggetto di indagine da parte della Direzione distrettuale antimafia palermitana.
Raffaele Urso
Raffaele Urso, anche lui di Campobello di Mazara, era uno che viaggiava molto spesso in trasferta a Roma, legato agli ambienti della massoneria. Cinuzzo era l’ambasciatore di Matteo nella Capitale. Urso e Allegra furono filmati nell’estate del 2014 mentre si incontravano in una casa di campagna in contrada Ingegna a Campobello di Mazara.
Arrivarono il primo in sella a uno scooter e il secondo in macchina. I carabinieri del Ros intercettarono solo l’ultima parte della conversazione grazie a una microspia piazzata in piena campagna. Allegra chiedeva l’intervento di Urso: “… aspettiamo un po’… che dobbiamo fare?… io a lu siccu… non lo voglio disturbare… che ha un c… di… mio cognato… che è un c… preciso… e ora mi devo andare a litigare con quest’altro cretino?”.
In quel “non lo voglio disturbare” c’era la conferma della presenza nel Trapanese di Matteo Messina Denaro. Con il senno di poi stava dicendo la verità. Il boss faceva il latitante a casa sua. E undici pedine fondamentali del suo scacchiere mafioso sono a piede libero nonostante la condanna.