Borsellino, il mistero delle 190 bobine dimenticate nei sotterranei

Strage Borsellino, il mistero delle 190 bobine dimenticate nei sotterranei

Spuntano cinque testimoni sull'agenda rossa

PALERMO – C’è un nuovo mistero che si aggiunge a quelli con cui storia e processi si confrontano da decenni. Ci sono 190 bobine dimenticate per 31 anni e ora ripescate dai magistrati di Caltanissetta nei sotterranei del Palazzo di giustizia di Palermo. Contengono ore di intercettazioni e si intrecciano con il dossier “mafia e appalti” a cui lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Le bobine negli archivi

La Procura palermitana, allora diretta da Pietro Giammanco, aveva disposto le intercettazioni in un filone di indagine che venne, però, archiviato nel giugno del ’92. Un mese prima che Borsellino e gli uomini della scorta saltassero in aria in via D’Amelio fu ordinato di smagnetizzare le bobine e distruggere i brogliacci dove vengono appuntate e riassuntate le conversazioni prima di un’eventuale trascrizione completa.

I nastri sono riemersi dagli archivi di Palermo su richiesta della Procura di Caltanissetta competente per le indagini sulle stragi di mafia. Tocca ai carabinieri del Ris scoprire se, come sembra a primo acchito, quei nastri contengano ancora delle voci registrate. Di chi? Di boss, imprenditori e politici protagonisti di quel groviglio di interessi sugli appalti che potrebbe legare Tangentopoli alla morte di Borsellino? Basta ricordare che dietro la Calcestruzzi Spa, colosso delle opere pubbliche della potente famiglia Ferruzzi, c’era Totò Riina. Così raccontò il pentito Leonardo Messina a Borsellino.

Il dossier “mafia e appalti”

Solo oggi dopo tre decenni di inchieste e processi (molti dei quali divenuti carta straccia dopo avere sbugiardato i falsi pentiti) si tornano ad analizzare le bobine. Bisogna fare attenzione, basta poco per rovinare i nastri. Serve tuta la perizia dei super esperti. Borsellino si interessò all’indagine su mafia-appalti dopo che colui che l’aveva avviata, Giovanni Falcone, era stato ammazzato a Capaci. A condurla erano gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per anni tenuti sulla graticola e alla fine assolti nel processo sulla trattativa Stato-mafia. C’era un gruppo di potere composto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi» Su quella indagine Mori, con l’allora giovane capitano De Donno, tra il 1990 e l’inizio del 1991, lavorò per mesi. Pochi giorni prima di essere ucciso Borsellino incontrò i carabinieri per fare il punto.

Il “nido di vipere”

E se Borsellino avesse scoperto dei servitori infedeli dello Stato all’interno della procura di Palermo definita da lui stesso un “nido di vipere”? Erano gli anni in cui, e lo ha detto Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, mafiosi come Antonino Buscemi e Giuseppe Lipari avrebbero goduto di coperture. Il primo sospettato è l’allora procuratore capo Giammanco. Trizzino, marito di Lucia Borsellino, ne ha parlato a Rai Tre nel nuovo programma “Far West” condotto da Salvo Sottile. C’è chi scandaglia, finalmente, il dossier “mafia e appalti” colpevolmente messo da parte per decenni nella narrazione dei media. La Trattativa è stato l’unico e solo faro investigativo. Si è sostenuto che Borsellino fosse stato ucciso o quantomeno che la sua uccisione fosse stata accelerata perché aveva scoperto l’esistenza del patto sporco fra boss e rappresentanti delle istituzioni.

L’agenda rossa

Ci sono tanti misteri da svelare, rimasti tali probabilmente perché si è guardato dalla parte sbagliata. Il buco nero ha risucchiato uomini e cose. Alcune trame potevano essere smascherate sul nascere ed invece tutti, per i primi i magistrati, hanno creduto alle bugie dei falsi pentiti. Oggi spuntano bobine di registrazioni e relazioni di servizio. Ciò che non si trova è l’agenda rossa. Spuntano, però, nuovi testimoni. Tre decenni dopo si scopre che il sottufficiale Giuseppe Lo Presti, il pomeriggio della strage, averebbe fermato il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, facendosi consegnare la borsa del giudice perché l’indagine era di competenza della polizia. Poi, di mano in mano, la borsa passò ai poliziotti Armando Infantino e Francesco Maggi, che la portò nella stanza del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera. I funzionari Andrea Grassi e Gabriella Tomasello hanno confermato di avere visto la borsa nell’ufficio del poliziotto che guidava il gruppo investigativo per le stragi. Arcangioli fu prosciolto nel processo, rinunciando alla prescrizione. È lecito chiedersi perché dei ricordi dei poliziotti si parli solo adesso.


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