PALERMO – Quello del boss Giuseppe Di Giacomo resta impunito, così come altri omicidi. Il mandante, all’inizio delle indagini indicato in Tommaso Lo Presti, neppure è arrivato a processo. Onofrio Lipari, accusato di essere il killer, è stato assolto.
Quattro omicidi irrisolti
Se non è stato Lipari a premere il grilletto – e la giustizia in primo grado ha stabilito così – allora l’assassino è in circolazione. Quello del boss di Palermo, ucciso alla Zisa nel 2014, viene risucchiato nei delitti irrisolti assieme a Davide Romano, Francesco Nangano Giuseppe Dainotti. Su un quarto, quello di Giuseppe Calascibetta, si è fatta luce solo in parte.
Giuseppe Dainotti
Giusepe Dainotti è stato ammazzato il 23 maggio 2017 in via d’Ossuna, sempre alla Zisa, alle 8 di mattina mentre era in bicicletta. È stato affiancato da uno o due uomini in sella ad uno scooter. Nelle immagini di una telecamera si vedono la ruota di uno scooter Honda Sh, che si allontanava in direzione del Papireto, e una scarpa da tennis. Probabilmente si trattava del killer, ma è troppo poco per identificarlo. Dell’assassino i poliziotti della Squadra mobile potrebbero possedere il Dna. Sull’asfalto c’era una traccia di saliva mista a sangue che non appartengono alla vittima. Dainotti potrebbe avere pagato con la vita la voglia di tornare a comandare dopo anni di carcere
Fino a quando era detenuto, i mafiosi in libertà si dovevano occupare, anche se a fatica, del suo sostegno economico.
Nel luglio 2010 squillò il telefono di Tommaso Di Giovanni. La zia, Francesca Paola Dainotti, sorella dell’uomo assassinato in via d’Ossuna, nonché madre di Tommaso Lo Presti, protestava: “… allora io oggi neanche posso fare la spesa… a zia”. “Più tardi vengo…”, rispondeva Di Giovanni che la scorsa esatte è stato scarcerato per fine pena.
Libero e sotto processo è anche il fratello Giuseppe. Gli altri imputati lo definivano “il pilastro della mafia”, ma sono scaduti i termini di custodia cautelare. Un terzo fratello, Gregorio, invece è detenuto.
Il mandamento di Porta Nuova è lo stesso di Di Giacomo, dove evidentemente sono in grado di commettere omicidi senza farsi scoprire. Di Giacomo fu assassinato in una strada piena di gente. Il killer attese che uscisse dal barbiere e salisse sulla sua Smart – o lo stava pedinando o qualcuno lo avvisò – per inseguirlo in sella ad uno scooter.

Davide Romano
Il 6 aprile 2011, in via Michele Titone, nella zona di corso Calatafimi, nel bagagliaio di una Fiat Uno c’era il corpo di Davide Romano. Nudo, mani e piedi legati, un colpo di pistola alla nuca. La vittima era un picciotto del Borgo Vecchio che scalpitava per farsi largo tra le nuove leve della mafia.
Silenzio assoluto per alcuni anni. Poi nel 2015 si è pentito Francesco Chiarello e ha raccontato che Romano sarebbe stato torturato e giustiziato in un magazzino alle spalle del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Si trova in via Scippateste. Il destino può essere macabro. Nel corso di un interrogatorio Chiarello ha parlato del “ragazzo che ha ucciso a Davide Romano”. Nessun altro riscontro, però.
Qualcun altro sussurrò il nome di Calogero Lo Presti. Davide Romano “comprava la droga fuori dalla borgata… ed aveva risposto male a Lo Presti”: ha raccontato il pentito Vito Galatolo. Anche stavolta nessun riscontro.

Francesco Nangano
La sera del 16 febbraio 2013 i sicari assassinarono Francesco Nagnano all’uscita di una macelleria di via Messina Marine. L’anziano boss Mariano Marchese e Gaetano Di Marco, titolare di un deposito di marmi e luogo dei summit del clan, discutevano del delitto senza sapere di essere intercettati: “… questo che hanno ammazzato?… un magnaccione… fimminaru… andava con cu e ghiè”.
Nangano era stato pure avvisato: “Gli hanno bruciato… tutte cose”. Vennero fuori dei contrasti per questioni di soldi con Nino Sacco, boss di Brancaccio pure lui scarcerato di recente. Sussurri, ma nessun riscontro per uno degli omicidi irrisolti.

Giuseppe Calascibetta
Il commando che il 19 settembre 2011 uccise Giuseppe Calascibetta, boss di Santa Maria di Gesù era composto da quattro persone. Solo una è stata condannata. Fabio Fernandez si è autoaccusato di un delitto che quasi certamente non gli sarebbe mai stato contestato. Per le altre tre persone di cui aveva fatto il nome non sono stati trovati i riscontri necessari per processarli.
“Appena lo abbiamo raggiunto… dice sparaci in testa, sparaci in testa… ho sparato e ce ne siamo andati”, raccontò Fernandez. Lo condussero sul luogo del delitto a Belmonte Chiavelli e fece la mappa delle posizioni dei componenti del commando. La sua descrizione era plausibile, ma da sola non bastava.
Mandamenti diversi, omicidi diversi e assassini in libertà. Storie di sangue che si muovono parallele a meno che qualcosa non leghi alcuni dei delitti irrisolti: il killer.

