Omicidio Agostino-Castelluccio: "Non sono stato io", ma arriva l'ergastolo - Live Sicilia

Omicidio Agostino-Castelluccio: “Non sono stato io”, ma arriva l’ergastolo

Il boss Madonia si è rivolto al padre dell'agente ucciso

PALERMO – Ergastolo confermato. Anche per i giudici di appello il capomafia di Resuttana Nino Madonia fu il killer dell’agente di polizia Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, trucidati il 5 agosto 1989. Cade però l’aggravante della premeditazione per l’omicidio della donna. Era incinta quando entrò in azione il commando di morte a Villagrazia di Carini.

“Stia tranquillo..”

Poco prima che la corte presieduta da Angelo Pellino si ritirasse in camera di consiglio, Madonia ha preso la parola per delle dichiarazioni spontanee. Rivolgendosi al papà dell’agente, Vincenzo Agostino, ha detto: “Stia tranquillo e sereno che non l’ho ucciso io suo figlio”. Dopo la condanna è il padre dell’agente a parlare: “Sono soddisfatto perché hanno condannato il macellaio di mio figlio e di mia nuora. Soddisfatto anche per mia moglie, desideravo tanto che ci fosse anche lei accanto a me. Ora toglierò la scritta sulla sua lapide, ‘morta in attesa di verità e giustizia’. Agostino, che ha assistito a tutte le udienze, non si rade dal giorno del delitto: “Si sta avvicinando il giorno in cui potrei tagliare la barba perché si avvia a conclusione anche il procedimento ordinario”.

LA RICOSTRUONE DEL DELITTO CON I DOCUMENTI DELL’EPOCA (VIDEO)

In un altro processo sono imputati Gaetano Scotto per duplice omicidio aggravato, e Francesco Paolo Rizzuto per favoreggiamento. Scotto, boss dell’Arenella, avrebbe pianificato il delitto assieme a Madonia. Rizzuto, secondo l’accusa, “dopo essere uscito a pescare con Nino Agostino, il giorno prima dell’omicidio, ha assistito all’esecuzione salvo poi tacere per lungo tempo e riferire poi fatti non rispondenti al vero”.

Spioni e spie

Ci si muove in una palude di trame oscure, rapporti border line, spioni e spie, in cui sguazzavano potenti boss a braccetto con i servizi segreti. Una palude dove i pentiti hanno recitato un ruolo da protagonisti. Il padre di Nino Agostino e la figlia Flora sono parte civile con l’assistenza dell’avvocato Fabio Repici. La madre Augusta Schiera è morta senza conoscere i colpevoli. Parte civile anche i familiari di Ida Castelluccio, assistiti dall’avvocato Enrico Bennici, la presidenza del consiglio dei ministri, il comune di Palermo, il centro studi Pio La Torre (avvocati Ettore Barcellona e Francesco Cutraro) e l’associazione Libera.

Pista neofascista

La Procura generale di Palermo, allora diretta da Roberto Scarpinato e oggi rappresentata in aula da Domenico Gozzo e Umberto De Giglio, ha avocato a sé le indagini. Agostino dava la caccia ai latitanti, divenendo così uno dei più pericolosi nemici per Totò Riina e per i Madonia, che dei corleonesi erano alleati. I collaboratori di giustizia Giovanni Brusca e Antonino Giuffrè hanno sostenuto che fu per questa ragione che Agostino venne ucciso. Altri due pentiti, Vito Galatolo e Vito Lo Forte, hanno indicano anche una seconda causale. Agostino faceva parte di una squadra speciale del commissariato San Lorenzo. Aveva incarichi delicati, tra cui quello di fare da scorta a un supertestimone interrogato dal giudice Giovanni Falcone, e cioè l’ex estremista di destra Alberto Volo. Volo raccontò a Falcone della pista neofascista per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, e ammise di fare parte a una struttura legata ai servizi segreti simile a Gladio. L’ex presidente della Regione, fratello dell’attuale capo dello Stato, sarebbe stato ucciso nell’ambito di una strategia della tensione per evitare che la sinistra entrasse al governo.

Stanare i latitanti

I colleghi di Agostino – Domenico La Monica e Sebastiano Arceri – hanno confermato il ruolo di Agostino nelle indagini sui latitanti. Faceva parte di una struttura parallela impegnata al di là del lavoro di routine e che si interfacciava con i servizi di intelligenza. Stessa cosa ha detto un altro poliziotto, Guido Paolilli, in passato anche lui indagato per favoreggiamento, ma poi la sua posizione è stata archiviata per prescrizione, il quale ha raccontato che Agostino aveva individuato un suo parente acquisito come soggetto vicino alla mafia. E gli confidò che aveva “paura di essere sparato”.

Il parente era Santo Sottile di San Giuseppe Jato, marito della zia della moglie di Agostino. Sottile era legato a Giovanni Brusca, allora reggente di San Giuseppe Jato, che agli investigatori ha detto: “Riina, che era tranquillissimo, mi disse che della cosa si erano occupati Nino e Salvo Madonia”. Aggiunse di essersi accorto di essere pedinato da una persona a bordo di una vespa, da lui riconosciuta in Agostino. La Procura generale lega l’omicidio Agostino ad altri delitti: Giacomo Palazzolo (maggio 1989), Gaetano Genova (marzo 1990), ed Emanuele Piazza (marzo 1990), tutti impegnati nella ricerca dei latitanti.

I pentiti

Delle “perlustrazioni” assieme ad Andrea Piazza, altro cacciatore di latitanti inghiottito dalla lupara bianca, in vicolo Pipitone, quartiere generale dei Madonia, ha riferito Vito Galatolo (“dove c’è Madonia passa la morte. Nino su futtiu ad Agostino”). Agostino sarebbe venuto a conoscenza dei rapporti fra Nino Madonia con settori deviati dei servizi segreti, ad un certo punto delegati a Scotto, e dei contatti con poliziotti infedeli.

Quando fu assassinato Agostino aveva 28 anni, appena 16 il suo amico Francesco Paolo Rizzuto. Avrebbe eluso le investigazioni dicendo, nell’immediatezza dell’omicidio, che aveva sentito i colpi di pistola, era corso sul posto ed era scappato per paura. Abitava accanto al luogo del delitto. Nel 2018 aveva ribadito la versione solo che, intercettato due giorni prima della convocazione, diceva: “…tanno la magliettina mia tutta china china i sangue… capisti?”. “… va bè ma tu ci dasti aiuto”, aggiungeva l’interlocutore mai identificato di Rizzuto. Che aggiungeva: “Io ci dissi ca io un c’era…”. Era dunque presente tanto da essersi sporcato di sangue. La circostanza viene ritenuta dalla procura generale “un formidabile riscontro” alle dichiarazioni rese già nel 1989 dal pentito Francesco Marino Mannoia, il quale aveva riferito, per averlo appreso dalla moglie Rosa Vernerngo, (a cui a sua volta lo aveva confidato il padre di Francesco Paolo Rizzuto, Cosimo) che “all’omicidio avrebbe assistito il più grande dei figli di Cosimo Rizzuto a nome Paolo”.


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