La condanna a morte per fucilazione e la sconfitta dell'umanità

La condanna a morte per fucilazione e la sconfitta dell’umanità

Incappucciato e con un bersaglio rosso sul cuore

È di qualche giorno fa la notizia che nella Carolina del Sud un condannato a morte è stato ucciso da un plotone di esecuzione.

L’immagine di quell’uomo incappucciato, con indosso una tuta nera con un bersaglio in rosso posizionato all’altezza del cuore, evoca un senso di déjà vu. Ti viene in mente la scena della fiction “Il Gattopardo” andata in onda poche settimane fa: i Quattro Canti, riportati indietro nel tempo, trasformati in un teatro di polvere nel quale i ribelli vengono fucilati contro un muro. Don Fabrizio che li osserva da un balcone, testimone silenzioso di un’epoca che cambia o, forse, come egli ben immagina, che finge di cambiare.

Ed, ancora, ti sovviene una analoga scena, mirabilmente descritta da Verga nel tramandarci l’episodio della rivolta dei contadini di Bronte, sedata da Nino Bixio e conclusasi con la fucilazione dei dissidenti. In entrambi i casi, sullo sfondo, un secolo, il diciannovesimo, che non conosceva ancora la Dichiarazione universale dei diritti umani nè l’idea che la dignità dell’uomo venga prima della colpa, prima della vendetta, prima dello Stato stesso.

Sono passati secoli, non solo in senso cronologico, ma anche in termini di coscienza civile, da allora. Secoli in cui l’umanità ha lottato per affermare nuovi paradigmi: la centralità della persona, la rieducazione del colpevole, il valore assoluto della vita, anche quando ci si è macchiati delle colpe più gravi.

Ciò che avvenuto negli Stati Uniti non è, purtroppo, un frammento di un romanzo storico né una scena di un passato remoto rievocata da uno sceneggiato televisivo.

È accaduto oggi, in un mondo che si proclama moderno, in un’epoca che si vanta di aver compreso il valore della vita e della dignità umana. La fucilazione rappresenta un segno cruento di una violenza attuata dalle Istituzioni che credevamo relegata nei libri di storia. E invece, eccola, ancora presente, in quella parte di mondo che si professa moderna e democratica.

Ogni condannato a morte ha un ultimo desiderio. Quello del condannato nella Carolina del Sud, reo confesso dell’omicidio dei suoceri, è stato proprio quello di morire fucilato. Ha scelto lui: tra la sedia elettrica, l’iniezione letale ed il colpo di fucile ha preferito quest’ultimo. Un’ultima amara concessione di un sistema che ancora crede nella legittimità della morte come punizione.

Si parla, nei comunicati ufficiali, di “morte quasi istantanea”, come se la celerità dell’esecuzione possa fungere da conforto morale, come se un colpo al petto possa considerarsi meno disumano di un’iniezione letale, in cui la morte è più lenta.

Ma il solo fatto che un essere umano debba decidere come morire, come affrontare la propria esecuzione, è un fallimento della società. Il solo fatto di detenere una persona per anni nel braccio della morte in attesa di ucciderla è un’azione che viola la dignità della persona oltre ogni limite consentito.

Ci raccontiamo che è giustizia. Che è deterrenza. Che è necessità di punire i crimini più efferati, di preservare l’ordine sociale, di dare un esempio. Ma a quale costo?

In realtà, la pena di morte è solo il trionfo della “giustizia” retributiva nella sua forma più estrema ed irreversibile. È il momento in cui lo Stato stabilisce che non esiste più alcuna possibilità di redenzione, né modo per la riabilitazione, e l’unica risposta possibile rimane l’eliminazione fisica dell’individuo. Ma la giustizia retributiva portata all’estremo non tiene conto dell’idea, evoluta nel corso dei secoli, che ogni individuo abbia diritto alla vita indipendentemente dalle sue azioni.

Senza considerare che è ancora indimostrato che quanto più le pene sono severe tanto più diminuisce la criminalità; anzi, in taluni anni, la percentuale di omicidi negli Stati Uniti è risultata più alta nei Paesi non abolizionisti che in quelli abolizionisti.

Ed ancora: la punizione dei gravi delitti acquieta davvero le vittime (o i familiari) solo se estrema?

La pena di morte non è soltanto un problema americano. Nel mondo, oggi, si continua a morire per mano del potere costituito con modalità che sfidano ogni senso di progresso e di umanità. In alcuni Paesi dell’Africa si può essere condannati a morte per rapina o per presunte pratiche di stregoneria.

Nel Medio Oriente, dove vige la legge islamica più rigida, le condanne comprendono la fustigazione, la lapidazione per reati sessuali e la decapitazione per il possesso di alcolici. A Singapore la pena di morte è comminata per reati di droga, così come in Cina. Sono tutte forme di giustizia arcaiche, profondamente disumane, variamente utilizzate come deterrente contro la criminalità, per mettere a tacere oppositori o minoranze, per soffocare il dissenso. Eppure ancora attuali.

Di fronte a tutto questo, non basta indignarsi. Lo sdegno, da solo, è sterile. Bisognerebbe trasformare lo sdegno in mobilitazione sociale. Lo stesso Papa Francesco ha affermato che non basta condannare, esortando a chiedere l’abolizione universale della pena di morte, imponendola come dovere morale prima ancora che giuridico.

È necessaria una mobilitazione sociale e culturale che ricordi che uccidere, anche legalmente, non sarà mai un atto di giustizia. Che affermi un’idea di giustizia che ripari, non che elimini. Una Giustizia equa, mite, non vendicativa. Che non tradisca i principi fondanti della convivenza civile.

Nel XXI secolo, la vera sfida è riuscire a consolidare i modelli dell’umanità e della dignità a livello globale. Perché finché anche un solo uomo morirà legato ed in silenzio di fronte ad un plotone d’esecuzione, tutti noi avremo perso una parte della nostra umanità.


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