Per la politica ci vuole il Daspo - Live Sicilia

Per la politica ci vuole il Daspo

Quando la ragione ha ceduto il passo alla propaganda e all'irrazionalismo, il grembo della società ha generato mostruosità devastanti.

Ci vorrebbe il Daspo per raffreddare i bollenti spiriti delle opposte tifoserie. Mi direte che c’è già, ma non è al calcio che mi riferisco, anche se è dallo sport più amato dagli italiani che una nuova generazione di politici post ideologici ha preso a prestito metafore e stilemi comunicativi, non ultimo il tifo come rito collettivo. In principio fu il Cavaliere che, dopo aver vinto l’impossibile con il suo Milan e aver costruito sulla tv commerciale un impero economico meritevole di essere tutelato come un “patrimonio della nazione”, annunciò in videocassetta la sua “discesa in campo” con un partito dal nome emblematico: Forza Italia. Di Silvio Berlusconi si può dire tutto, tranne che non sappia interpretare la psicologia profonda di un paese che si è sempre dimostrato refrattario al razionalismo e poco incline alla discussione pubblica fondata sulla logica. Un paese innamorato delle idee semplici e delle soluzioni semplificate e di uomini forti cui delegare gli affari di Stato; una nazione intellettualmente pigra e perciò sempre prona alla fede nel verosimile.

Il tifo diventa così la parodia dell’opinione pubblica, il suo surrogato fondato sulla credulità e sulla smisurata ammirazione per le gesta eroiche del leader-campione, moderna divinità eletta ad archetipo sociale, ideal-tipo cui uniformare i propri comportamenti. Il bipolarismo, imposto a colpi di referendum a metà degli anni ’90 per superare la desolante e paralizzante palude post guerra fredda, ha istituzionalizzato il tifo come espressione e modalità di confronto a supporto di leader in perenne stato di guerra. Il tifo è in ultima istanza un atto di fede fondato su preconcetti e pregiudizi. La sua esistenza è in qualche misura necessaria perché ci colloca sul piano sociale, ci fa sentire parte di qualcosa di più grande; riempie con le sue rassicuranti semplificazioni la solitudine della modernità liquida. In nazioni dalla coscienza civile debole, come l’Italia, in cui la nazionalizzazione delle masse è stata parziale, il tifo si è affermato come pseudo ideologia, incrociando un’indole predisposta alla tenzone.

Nel paese dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Bianchi e dei Neri, delle accese dispute tra campanili, il tifo ha trovato il suo ideale brodo di coltura. C’è però una soglia che il tifo non dovrebbe oltrepassare, nello sport come nella politica: quella della ragionevolezza. L’impressione è che quella soglia rischia di essere travolta, con conseguenze nefaste. Può infatti un paese vivere e prosperare in un clima di degenerante propaganda in cui il verificabile si confonde col verosimile e dove finanche la scienza è assediata dagli imbonitori che prosperano sulla credulità popolare? La storia ci ammonisce che è un pericoloso piano inclinato. Quando la ragione ha ceduto il passo alla propaganda e all’irrazionalismo, il grembo della società ha generato mostruosità devastanti. Quando il leader di un movimento che raccoglie il consenso di una fetta significativa di elettorato dice “non sono qui per ascoltare” nega inconsapevolmente ogni spazio alla dialettica delle idee, al confronto politico come processo razionale e, quel che è peggio, rischia di far sprofondare il paese in una condizione primordiale sottoposta alle leggi della natura e ai suoi incontrollabili rapporti di forza. E non c’è moviola che possa sconfessare i preconcetti e i pregiudizi. In curva la verità è unica e non negoziabile. Fatevene una ragione.

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