Perché Lucia lascia un Paese opaco - Live Sicilia

Perché Lucia lascia un Paese opaco

Di Beppe Severgnini (tratto da www.corriere.it) Ci siamo accorti che carovane di giovani italiani, bravi e istruiti, si spostano dal Sud al Nord (122mila nel 2008, secondo Svimez). Altrettanti, e altrettanto bravi, saltano un passaggio: dal Sud vanno direttamente all'estero. Dieci anni di viaggi e "pizze Italians" mi hanno lasciato pochi dubbi e molte storie tristi. Quei ragazzi non partono per imparare; partono per dimenticare.
SCELTI PER VOI
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Di Beppe Severgnini (tratto da www.corriere.it)
Ci siamo accorti che carovane di giovani italiani, bravi e istruiti, si spostano dal Sud al Nord (122mila nel 2008, secondo Svimez). Altrettanti, e altrettanto bravi, saltano un passaggio: dal Sud vanno direttamente all’estero. Dieci anni di viaggi e “pizze Italians” mi hanno lasciato pochi dubbi e molte storie tristi. Quei ragazzi non partono per imparare; partono per dimenticare. Non si tratta solo di intimidazioni e soprusi (ci sono anche quelli). È il sottobosco dei compromessi a dare la nausea. Ho chiesto a una ragazza siciliana, che chiameremo Lucia, di spiegare perché se ne va. Leggete con attenzione: è uno spaccato dell’Italia opaca, quella che molti giovani meridionali non sopportano più. “Vorrei raccontare, alla vigilia della partenza, ciò che ho passato e imparato in Sicilia, dove sono nata e cresciuta. Mi laureo a ventiquattro anni, col massimo dei voti. Borsa di studio all’estero: mi trovo bene, ma decido di tornare e cercare un lavoro. Dopo un po’, lo trovo. Solo che non mi pagano subito. Dovrà aspettare circa due anni, mi dicono. Accetto: si tratta di un’istituzione importante, penso al curriculum. Per mantenermi collaboro con un ente culturale privato che ha relazioni con l’estero; non ho un contratto, le collaborazioni sono malpagate e irregolari. Poi, una buona notizia. Una società di formazione e progettazione mi offre un lavoro, mille euro mensili, 50 ore settimanali.

Si tratta di cercare e studiare bandi pubblici e redigere progetti perché vengano finanziati. Una cosa mi preoccupa: il mio contratto non riporta affatto le mie mansioni. Scopro di venire pagata col finanziamento pubblico di un altro progetto, che dichiara più figure professionali di quelle effettive. Di volta in volta risulto consulente per una mostra di fotografie; segretaria organizzativa di un progetto di recupero degli antichi mestieri; tutor in un corso di formazione. Lo stipendio arriva a intervalli imprevedibili: non so come pagare l’affitto e devo chiedere un prestito ai miei, pur lavorando tutto il giorno, tutti i giorni, anche il sabato. Ne parliamo tra colleghi: sono nauseati, ma temono di rimanere disoccupati. Mi licenzio, mi dedico nuovamente alla ricerca di un lavoro, vengo al Nord per colloqui. Non è facile, inoltre pare che io sia in un’età critica: e non ho ancora trent’anni. Continuo a cercare, a inviare e-mail, a studiare. Finalmente, una risposta: un’università inglese, ricevuto il mio Cv e un progetto di ricerca, mi offre una borsa di dottorato. Sto preparando le valigie e cerco casa. I miei fratelli, entrambi laureati, sono già emigrati. Uno lavora in Scandinavia, l’altro in Svizzera. Sono contenti“.


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