CATANIA – La minaccia era chiara: bruciare vivo, in una pila di copertoni, un imprenditore che non voleva pagare il pizzo. Un imprenditore – sotto estorsione – che in precedenza aveva pagato, costretto dal clan Ercolano – Santapaola, grazie all’intermediazione di un “amico buono”: il boss Ignazio Barbagallo, oggi pentito. Per gli uomini del clan, però, è arrivato il rinvio a giudizio, firmato dal giudice Rosa Alba Recupido.
Santo Tomasello, Ignazio Barbagallo e Nicolò Squillaci sono imputati per aver minacciato di danneggiare il cantiere gestito da alcune imprese a Centuripe, se non si fossero messe “a posto” con la famiglia mafiosa di Enna. Per portare a termine il piano, le minacce arrivavano attraverso Nicolò Squillaci e Ignazio Barbagallo, “entrambi – scrivono gli inquirenti – affiliati alla famiglia mafiosa Santapaola – Ercolano”. Avrebbe avuto un ruolo determinante anche Santo Tomasello, accusato di minacciare la mancata restituzione di un bob cat Caterpillar che era stato rubato: il prezzo da pagare era di 20mila euro per la famiglia mafiosa di Enna e 5mila euro dovevano essere consegnati agli Squillaci-Martiddina.
Le minacce scattano quando Ignazio Barbagallo, oggi pentito, era il responsabile dei Santapaola per Belpasso, San Pietro Clarenza e Nicolosi. All’interno degli gruppo mafioso, Santo Tomasello chiede di avere l’intera somma, assicurando che poi avrebbe fatto i conti con Barbagallo
L’INTIMIDAZIONE – Santo Tomasello e Ignazio Barbagallo sono imputati per aver bloccato con la propria auto la strada all’imprenditore sotto estorsione, dicendo che “l’amicizia era finita” e che se non avesse pagato sarebbe stato infilato dentro una pila di copertoni e bruciato vivo.
Agli atti c’è anche il coinvolgimento di Mirko Casesa, giovane mascalucese vicino al clan. Insieme a Santo Tomasello, avrebbe costretto l’imprenditore a uscire da un locale per ascoltare l’avvertimento: non aveva più la protezione “dell’amico buono”, cioè Ignazio Barbagallo. Questa “protezione” costava 10mila euro per gli “amici di Mascalucia”. Con questi soldi, sarebbe stata perdonata anche la denuncia dell’imprenditore contro i mafiosi, da quel momento “gli avvocati e le guardie – ammoniva Casesa – dovevano stare fuori dai loro discorsi.
L’imprenditore fu costretto a emettere un assegno di 7.500 euro con la dicitura “chiusura conteggi Garibaldi”. Adesso, per loro, si sono riaperte le porte del Tribunale.