Policlinico, voci dall'emergenza | "Quel bimbo morto tra le braccia" - Live Sicilia

Policlinico, voci dall’emergenza | “Quel bimbo morto tra le braccia”

Viaggio nei pronto soccorso.

Palermo-l'inchiesta
di
3 min di lettura

PALERMO- Le facce e le vite spezzate non le scordi mai. “Non dimentico quel bambino che ci è morto tra le braccia. Era in asfissia, abbiamo tentato di tutto per salvarlo. Sono cose a cui non ti abitui. Aveva appena due mesi”.

Santi Maurizio Raineri, rianimatore, racconta le storie di ordinario dolore e di straordinaria speranza che sono il suo pane quotidiano. “Lo stress? Soprattutto per la responsabilità. Dalle tue scelte dipendono la salvezza o la morte”. Pronto soccorso dell’ospedale Policlinico di Palermo, nuova puntata del viaggio di LiveSicilia nelle aree d’urgenza cittadine. Di recente, il trasferimento nei vecchi locali risistemati e l’abbandono di una specie di malmesso canile che fungeva da zona d’emergenza. I progetti sono più ambiziosi. “Entro il 2016 – spiega il responsabile del dipartimento, Antonino Giarratano – ci sposteremo in una struttura rinnovata e più accogliente”.

E’ l’unica politica possibile, se non ci sono alternative: aumentare gli spazi del Grande Aiuto Immediato. I numeri – al Policlinico, la situazione non è diversa – sono da invasione. Lunedì scorso sono stati registrati 158 accessi. In cento sono stati curati e rinviati al medico di famiglia. Il totale va ulteriormente frazionato in un codice rosso, trentaquattro gialli, il resto, verdi e bianchi: una massa che non ha trovato altro per la soluzione di un malanno, per l’insorgere di una paura improvvisa. Nel 2015, attraverso la porta dell’area d’emergenza, sono passati 64.721 pazienti: l’undici per cento è arrivato col 118 (il 59 per cento in codice rosso, il trentatré per cento in codice giallo), l’otto per cento è stato inviato dai servizi territoriali, l’ottantuno per cento è piombato qui con i suoi mezzi. C’è un triage a due binari, per la valutazione dei casi: uno per i cosiddetti ‘barellati’, uno per i ‘deambulanti’, c’è una sala rossa per le situazioni più delicate a cui si giunge direttamente dall’ambulanza.

I tempi medi per il ricovero – spiega il direttore Giarratano – si attestano sulle nove ore”. Un abbattimento rispetto ad altre situazioni, come fate? “Gestiamo il flusso, cercando di trovare un posto dove c’è, naturalmente, quando lo consente compatibilità tra la patologia e la destinazione”. “Abbiamo diciotto medici e trentatré infermieri – chiosa il direttore generale, Renato Li Donni – siamo un po’ al di sotto della pianta organica”. In sala d’attesa, una ventina di persone aspetta il suo turno, guardando il monitor. Nessuno si lamenta. Pure all’interno, nella saletta degli osservati, regna la quiete. Qualche parente si lascia intervistare: “Siamo stati accolti bene, con professionalità e celerità”.

Vittorio Giuliano, che del pronto soccorso è il grande capo, ha l’esperienza della prima ora: “Chiediamo chiarezza a chi fa comunicazione. Informate il pubblico: esistono varie opzioni che permettono la cura. Non c’è solo il caro, vecchio P.s.. Nessuno può assistere adeguatamente centomila casi all’anno”. L’onda di piena si presenta inarrestabile, talvolta con esiti violenti, se capita il soggetto della categoria fatemi-entrare-subito-o-spacco-tutto.

Antonella Collorà, di presidio al triage, dice la sua che somiglia all’eco critica di altri triage e di altri infermieri: “Ci vorrebbe più cultura del rispetto. Certamente, chi arriva qua ha bisogno di sostegno e noi dobbiamo fornirglielo”. Piero Lipari, infermiere con un curriculum da veterano, conferma: “La qualità della nostra utenza è quella: qua viene il popolo che non non trova risposte, che non sa dove sbattere la testa, che non possiede altri punti di riferimento. E tutto deve funzionare alla perfezione, io devo mettermi nei panni di chi ho davanti”. Un meccanismo ad alto rischio che appare efficace; “peccato – aggiunge un anonimo che i politici siano ovunque nella sanità, con raccomandazioni e pressioni”.

Roberto Di Lorenzo, medico e chirurgo, chiarisce: “Il nodo fondamentale sta nel comprendere che il malato va considerato globalmente. Devi valutarlo e interpretare correttamente la sua esigenza, a prescindere dal contesto emotivo. Avvertiamo il peso delle decisioni”. E delle vite che passano e svaniscono, punteggiate dalle grida di chi non si dà pace, perché un figlio è morto e aveva appena due anni. Come riesce a resistere, dottore? “Davvero, non lo so”. E una mano asciuga una mezza lacrima. (4-continua)


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI